3 febbraio 2012
UNA BASE PIU’ SICURA
Domenico Timpano
Discussione su “Dal Sintomo alla Persona. Medico e Psicologo insieme per l’assistenza di base” A cura di Luigi Solano. Franco Angeli (2011)
La psicoanalisi ha sicuramente qualcosa da imparare
dalla medicina generale, dallo studio dell’atteggiamento
del medico generico e del modo in cui egli prescrive se
stesso (naturalmente è vero anche il contrario).
D.W. Winnicott
La possibilità di una collaborazione fattiva dello psicologo e del medico di medicina generale, non a seguito di invio, ma ricevendo insieme i pazienti dal primo momento, costituisce un approccio pionieristico all’assistenza sanitaria di base. La nuova figura che vi prende parte, lo psicologo di base o psicologo della salute, introduce elementi di interfaccia col medico che ampliano significativamente le possibilità di contenimento – clinico e finanziario – dell’assistenza primaria. Io descriverò al riguardo il mio punto di vista, basato sulla mia esperienza di medico di base e di psicoanalista.
Prima di entrare nello specifico delle nostre tematiche, e seguendo la stessa traccia degli Autori, richiamerò brevemente alcuni concetti di Michael Balint, che mi sembrano fondamentali allo scopo.
La speciale atmosfera psicologica della medicina generale
Balint, che era figlio di un medico generico, nel suo famoso “Medico, paziente e malattia”, ha descritto “la speciale atmosfera psicologica della medicina generale” (cap XIII). Questa atmosfera è speciale perché è immediatamente in contatto con la vita delle persone e con i loro contesti. Una maggiore osmosi, dunque, tra il mondo del paziente e quello del medico favorisce l’ingresso nel setting dei problemi di salute al loro inizio, prima che si strutturino in malattie più definite. Balint ha chiamato questa fase iniziale “fase non organizzata”, perché medico e paziente non hanno ancora deciso cosa fare. L’organizzazione di questa fase avverrà a partire dalle risposte del medico alle “offerte” del paziente. Il termine “offerte”, nel linguaggio di Balint, sta ad indicare che il paziente non porta nello studio solo sintomi, ma una sua personale proposta, che passa attraverso il sintomo o il disagio, alla ricerca di un destinatario adeguato. In questa fase il medico prescrive essenzialmente se stesso. Da qui l’importanza del controtransfert e di una formazione che aiuti il medico e lo psicologo a utilizzarlo, come per esempio avviene nei gruppi Balint.
Trovarsi di fronte allo psicologo
L’aspetto centrale e più originale dell’esperienza descritta dagli Autori riguarda la co-presenza dello psicologo e del medico di base. Entrambi ricevono i pazienti sin dal primo momento in cui afferiscono allo studio medico, dove lo psicologo è presente un giorno a settimana.
Quando lo psicologo è già presente nello studio, senza bisogno di essere chiamato, un paziente può scoprire la voglia di raccontarsi mentre era andato dal medico “solo” per fare la vaccinazione antinfluenzale, o una ricetta, o un certificato. E’ una virtualità importante e singolare della medicina generale, che viene solitamente circoscritta o soppressa, per mancanza di tempo e di formazione adeguata.
A volte, però, non è neanche questione di tempo. Ci sono pazienti per esempio, che al termine della visita si trattengono sulla porta, iniziano a parlare di cose piuttosto importanti e rimangono lì per un tempo indefinito. Se si offre loro un tempo e uno spazio – che a noi sembra più adeguato – per esempio un appuntamento per parlare e affrontare meglio la situazione, spesso rifiutano. Sembrano spiazzati all’idea che esista uno spazio altro da quello che loro possono strappare, che qualcuno si occupi di loro diversamente, e finiscono col temere questa possibilità. Uno psicologo presente potrebbe intercettare questi “attimi fuggenti” e lavorare “sulla soglia” del contatto col paziente, in mezzo alla porta, e poi vedere che succede.
La “speciale atmosfera psicologica della medicina generale” di cui parlavo prima, la cosiddetta fase iniziale “non organizzata”, è oggetto di particolare attenzione da parte degli Autori di questo libro. Sono attenti alle comunicazioni che “passano” attraverso la presentazione e l’”offerta” dei sintomi fisici, delle richieste di certificati e ricette, alle persone che entrano nello studio, alla sala d’attesa, e dunque a tutto il contesto della medicina generale. Riconoscere una fase iniziale dei problemi significa offrire un organizzatore e un contenitore a elementi del sistema che altrimenti collasserebbero sull’unico organizzatore (e contenitore disadattivo) disponibile al livello successivo: la malattia. La malattia stessa viene considerata non soltanto nel suo aspetto “destruens”, chiaramente evidente e correlato con la gravità della stessa, ma anche nella sua funzione di segnalazione di problemi e della contestuale necessità di ricercare le risorse presenti nell’individuo e nel suo ambiente.
Gli Autori rivisitano su queste basi alcuni concetti della medicina tradizionale. La malattia, per esempio, non viene più considerata come un’entità oggettiva a sé stante, ma piuttosto una co-costruzione del paziente e del medico. La diagnosi non è il prodotto dell’osservazione dei sintomi, ma di un accordo tra le competenze del medico e quelle del paziente. Il titolo del libro rimanda efficacemente a quest’ordine di idee: dal sintomo alla persona e non dal sintomo alla diagnosi, come si dice nei testi di semeiotica medica.
Considerazioni sulla complessità e sulla difficoltà di un approccio congiunto medico psicologico
Se è vero che possiamo aspettarci innumerevoli vantaggi dal lavoro congiunto del medico e dello psicologo insieme, è altrettanto vero che i rischi di un simile approccio non sono stati ancora sufficientemente studiati. Mi baserò sulla mia esperienza personale per descrivere quelli che mi hanno colpito di più.
In primo luogo segnalerei i rischi connessi non tanto con la presenza dello psicologo, ma col fatto stesso che un ascolto di tipo psicologico abbia luogo all’interno di un ambulatorio medico. Per alcuni pazienti, ad esempio, tale approccio costituisce una deformazione arbitraria del modo in cui si aspettano di essere curati.
Molti dei pazienti che consultano la medicina di base non sono ancora pronti a sentire che i loro sintomi fisici abbiano anche una valenza psichica. Il fatto di poterlo scoprire, grazie alla presenza dello psicologo o grazie all’approccio psicologico del medico, dovrebbe apportare – ci aspetteremmo – un valore aggiunto. Ma nei fatti non è spesso così. Alcuni se ne giovano subito e apprezzano in tanti modi l’opportunità che è stata loro offerta; altri invece sembrano vedere il diavolo e l’acqua santa. Il problema in questi casi dipende sia dall’approccio usato sia dalla persistenza di nuclei dissociati nella personalità dei pazienti, che non possono ancora essere integrati. Mi sembra utile per spiegare questo fenomeno fare riferimento a quanto Winnicott ci ha tramandato a proposito dei disturbi psicosomatici.
Nel suo lavoro del 1964 “la malattia psicosomatica nei suoi aspetti positivi e negativi”, pubblicato nel 1966, Winnicott sosteneva che la vera malattia psicosomatica non era la patologia somatica o funzionale (colite, asma, eczema) che veniva presentata, ma la “persistenza di una scissione, o di dissociazioni multiple, nell’organizzazione dell’Io del paziente”[1]. Oggi parleremmo di “disconnessioni”, se usassimo la terminologia di W. Bucci, per descrivere questo ordine di fenomeni.
Nei disturbi psicosomatici è possibile cogliere due tendenze di fondo: una tendenza alla dissociazione, molto potente, e una tendenza all’integrazione, legata al coinvolgimento somatico stesso e, soprattutto, a come quest’ultimo viene elaborato dall’ambiente. E’ in questa virtualità integrativa che Winnicott riconosce il versante positivo del sintomo psicosomatico.
La tendenza o il bisogno di dissociare è una necessità così potente da spingere i medici a relazionarsi coi singoli frammenti che i pazienti dissociati gli presentano. Le specializzazioni mediche ben si prestano a raccogliere le spinte frammentanti dei pazienti. Se una persona che ha una bradicardia e capogiri “vuole” mostrare solo il cuore e va dal cardiologo, può stare sicura che il cardiologo vedrà solo il cuore, meglio del medico di base, ma solo quello. La stessa persona sa che per l’intestino andrà dal gastroenterologo, a sirene spiegate contro l’helicobacter pilory di cui ha letto su internet, ma eviterà di accostare la nausea alla bradicardia, ed eviterà il medico che proverà a collegare la bradicardia, i capogiri e la nausea con qualche disagio esistenziale. Questo paziente non scopre alcun valore aggiunto in collegamenti del genere, ma un onere in più per la sua già provata economia interiore.
E se non bastano gli specialisti del Sistema Sanitario, i frammenti del paziente rintracciano omeopati, agopunturisti, psicoanalisti, osteopati, medicine alternative – più o meno “olistiche”, e quanto di più vario il mercato possa loro offrire. Winnicott chiama questo fenomeno “una dispersione di agenti responsabili” (a scatter of responsible agents) in cui i medici acquistano il ruolo dei frammenti del paziente.
Il problema principale, quando entriamo in contatto con questi pazienti, è in che modo, fino a quando e come riusciamo a rispettare la dissociazione, e se riusciamo a farlo finché le condizioni del paziente migliorano al punto da poter realizzare le sue spinte integrative. A volte non possiamo arrivarci come noi vorremmo a allora dobbiamo imparare ad accontentarci di risultati parziali, sapendo quali sono i limiti delle nostre possibilità cliniche .
“La difficoltà del nostro lavoro – scrive Winnicott – sta nel mantenere una visione unificata del paziente e della malattia senza che ciò sembri fatto in modo da sopravanzare la capacità del paziente di acquisire integrazione e unità”.
Penso che tanto lo psicologo quanto il medico di base debbano essere avveduti dei rischi che corrono e debbano ricercare insieme strumenti per monitorarli e per evitare il più possibile di sopravanzare lo stato mentale del paziente.
In medicina, specie quando un paziente ha tante malattie, abbiamo spesso a che fare con stati mentali primitivi che si allineano sostanzialmente con i sintomi fisici presentati. In questi casi è opportuno che lo psicologo sappia astenersi e aspettare il suo momento, lasciare che sia la visita a fornire sostegno psicologico. In certi casi, infatti, e in certi momenti, l’intervento psicologico più profondo in medicina coincide col visitare il malato. L’esame fisico del paziente, chiamato anche “esame obiettivo” è un potente vettore intersoggettivo di emozioni, un’esperienza che richiama in qualche modo lo “handling” di Winnicott.
Effetti positivi sul medico e sul SSN
Posto che se si riesca a fronteggiare le difficoltà dell’approccio psico-somatico, credo siano invece significativi i vantaggi che possiamo aspettarci da una pratica clinica di co-presenza psicologica e medica. Poiché nel libro sono ampiamente trattati, mi limiterò soltanto a un piccolo richiamo e a qualche breve aggiunta.
Concordo con l’ipotesi di un risparmio economico, dovuto alla precocità dell’intervento e al fatto che psicologo e medico insieme realizzano un più ampio drenaggio psico-somatico, che a sua volta ridurrebbe il ricorso a indagini e farmaci per motivi psicologici.
E’ prevedibile anche una riduzione degli invii inutili, per un migliorato funzionamento del contenitore sanitario di base. La presenza dello psicologo di base, ci fa notare Mario Bertini nella sua interessante postfazione, consente lo stabilirsi di una relazione sistemica di interfaccia tra medico e psicologo, che costituisce una relazione alternativa alla collaborazione su delega, che si attiva invece quando un professionista invia all’altro il suo paziente. La disponibilità a livello di cura primaria di una relazione di interfaccia eviterebbe, per quanto riguarda la salute mentale, che si “scivoli da un processo di medicalizzazione” (pag 159), cioè invio sistematico allo psichiatra, “ a un processo di psicologizzazione”, cioè invio sistematico allo psicologo .
Il medico stesso può beneficiare della relazione di interfaccia per scopi personali, perché la presenza accanto a lui dello psicologo gli consente di riappropriarsi, rivivendoli insieme, degli aspetti psicologici della medicina. Tali aspetti psicologici, infatti, vengono spesso scissi e delegati allo specialista psicologo o psichiatra. Il medico, a mio avviso, non deve diventare – per contrapposizione con lo psicologo – una sorta di “somatologo”, perché perderebbe il senso dell’ unità psicosomatica che è costitutiva della medicina e dell’atto medico. Lo psicologo accanto potrebbe restituirgli, anziché togliergli, la valenza psicologica della sua disciplina.
Penso poi che lavorare insieme allo psicologo riduca anche il rischio di burn-out del medico, perché il lavoro stesso diventa più vivo e motivato e perché il medico sviluppa meglio le sue capacità autoriflessive.
Aggiungerei infine che il lavoro congiunto, nella misura in cui migliora la qualità del rapporto di cura, implichi anche una riduzione del numero di visite domiciliari. Ho potuto infatti constatare che quando si stabilisce tra medico e paziente un rapporto di fiducia, i canali di comunicazione diventano più ricchi e flessibili e rendono meno indispensabile la presenza del medico a casa del malato. Così come, quando c’è un buon rapporto, il medico accetta più volentieri di recarsi a casa del paziente se pensa che il problema lo richiede, anche se non c’è una malattia definita.
Il problema di un approccio psico-somatico più ampio e di quale formazione debbano avere lo psicologo e il medico che lavorano insieme.
Si ripete spesso che in medicina di base dal 40 al 60% delle consultazioni è legato a problemi psicologici. Questo rilievo parte da una divisione piuttosto netta tra ciò che è psicologico e ciò che non lo è, in particolare, tra ciò che è organico e ciò che è funzionale. Ma oggi la distinzione tra organico e funzionale è diventata meno netta di prima. Sia perché sono aumentate le conoscenze fisiologiche e neuroscientifiche, per cui si riesce a dimostrare la partecipazione della materia a processi che prima erano considerati “sine materia”. Sia perché disponiamo di concettualizzazioni psicosomatiche più olistiche, che vedono mente e corpo come un dualismo solamente conoscitivo e non ontologico. Psiche e soma sarebbero i due versanti dai quali proviamo a entrare in contatto con una realtà unica.
Da un punto di vista olistico, dunque, il 100% dei problemi e delle malattie è sia psicosomatico che somatopsichico. Una persona che soffre di dolori addominali può avere un colon irritabile e contemporaneamente un tumore. Le due condizioni non si escludono. Dobbiamo dunque tenere presenti entrambe le possibilità e saperci inoltrare lungo di esse. Medico e psicologo insieme possono farlo se riescono, come Luigi ci fa notare, a formare una coppia, cioè un insieme affiatato di approcci, in cui sappiano bene quando deve farsi avanti più l’uno o l’altro o parallelamente. Quando rispettare la dissociazione e quando promuovere l’integrazione. A me sembra questo essere uno dei problemi clinici principali su cui interrogarci, in particolare con riferimento a come debbano essere formati lo psicologo e il medico che lavorano insieme. Nella clinica dicotomica che abbiamo imparato ad esercitare, possiamo sbagliare sia per eccesso di “corpo” che per eccesso di ”mente”. A spingere verso questi errori non ci sono soltanto elementi socio-culturali, che certamente incidono, ma anche quei problemi dissociativi di cui parlavo prima.
Occuparsi di mente e corpo, assumere una responsabilità clinica, e non solo teorica di un processo di cura è un lavoro delicato e difficile. I pazienti possono avere più di una malattia e avere bisogno di essere curati contemporaneamente a più livelli. Oppure ci presentano un versante per evitare di vedere l’altro. Dice ancora Winnicott nello stesso lavoro del 1966: “Spesso proprio gli ipocondriaci finiscono per non essere sottoposti alle indagini necessarie quando hanno un cancro...e pazienti fisicamente malati si presentano come bisognosi di psicoanalisi”
Ma quale formazione devono avere medico e psicologo per lavorare insieme e affrontare al meglio i problemi che si pongono in uno studio medico?
La medicina di base è un ambiente molto particolare. Per inserirsi in maniera clinicamente utile ed evitare i rischi di cui ho parlato prima, non è certamente sufficiente né la laurea in psicologia, né quella in medicina. La soluzione proposta da Luigi è sufficientemente articolata, in quanto prevede un corso di specializzazione post lauream, la partecipazione a gruppi di supervisione e a gruppi Balint. Non so se la specializzazione in Psicologia della Salute richieda anche qualche esperienza di analisi personale, ma penso che sarebbe d’aiuto. Ritengo tuttavia che quello della formazione dello psicologo di base, ma anche quello del medico di base che si interfaccia con lui, debbano essere ulteriormente comprese e approfondite.
[1] Winnicott descrive il processo maturativo a partire da uno stadio primario non integrato, che ha però una tendenza verso l’integrazione in funzione delle risposte materne. E’ il fatto che il bambino possa godere con la madre l’esperienza della sua unità psicosomatica che spinge la psiche a installarsi (indwelling) nel corpo e viceversa. Il godimento di un corpo che funziona favorisce quindi lo sviluppo di una mente che funziona e che a sua volta rinforza il funzionamento del corpo: il tono muscolare, la coordinazione, la produzione anticorpale, ecc. Uno sviluppo carente rispetto a questi elementi conduce a una incertezza di “indwelling”, di coabitazione psico-somatica, a una maggior debolezza del Sé e alla tendenza ad elaborare vissuti ostili nei confronti del mondo esterno. Il Sé debole deve difendersi da ogni tentativo di integrazione, in quanto il riavvicinamento di parti ostili e conflittuali minaccia di annientarlo, e tende a rifugiarsi nella condizione dissociativa dello stato primario non integrato.
[2]Seppure il problema principale rimane la dissociazione, persiste comunque una tendenza all’integrazione, di cui il sintomo somatico si fa “portavoce”. Il positivo della malattia psicosomatica starebbe proprio in questa proprietà del corpo. Il coinvolgimento del corpo, infatti, può richiamare a sé la psiche che si era originariamente distaccata da esso. Winnicott nel suo lavoro del 1949, “l’intelletto e lo psiche soma”, sostiene che in caso di carenze ambientali la mente del bambino cerca di rendersi autosufficiente, si stacca dal suo legame psicosomatico e cerca di “rendere non necessaria la madre”. Questa mente (mind), tradotta in italiano col termine “intelletto”, seduce e ingloba la psiche del bambino che era originariamente legata al soma. Il coinvolgimento del corpo nelle malattie psicosomatiche rappresenterebbe dunque una possibilità che il corpo si riprenda la psiche che gli era stata sottratta dall’intelletto. Inoltre, sempre secondo Winnicott la malattia psicosomatica proteggerebbe “lo psiche-soma da una fuga verso un’esistenza troppo intellettualizzata o spirituale, o verso”exploits” sessuali compulsivi che potrebbero ignorare le richieste di una psiche costruita e mantenuta sulla base di un funzionamento somatico”.
BIBLIOGRAFIA
BALINT M. (1957), The doctor, his patient and the illness, Pitman Madical Publishing Co. Ltd., London; trad. it. Medico, paziente e malattia, Feltrinelli, Milano, 1961,
SOLANO L. a cura di (2011) Dal sintomo alla persona. Medico e psicologo insieme per l’assistenza di base. Franco Angeli, Milano
WINNICOTT D.W. (1949), Trad.it. L’Intelletto e il suo rapporto con lo psiche-soma, in: Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975, pp. 291-304
WINNICOTT D.W. (1966) Psychosomatic illness in its positive and negative aspects. International Journal of Psychoanalisis, 47, 510, London.