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Cimino C. - La concezione dell’amore in Freud. Implicazioni teoriche e cliniche (2012)

18 MAGGIO 2012

LA CONCEZIONE DELL’AMORE IN FREUD. IMPLICAZIONI TEORICHE E CLINICHE

Cristiana Cimino

In Freud l’amore è concepito in due fondamentali varianti: narcisismo o  nostalgia struggente e inguaribile per l’oggetto perduto e sempre da ritrovare, quel primo insostituibile Altro che non è ri-trovabile, non lo stesso, mai. Non c’è amore più grande di quello per la madre, è quello il paradigma originario e persistente dell’amore che emerge tutto nel Freud acropolitano e soprattutto nella bellissima lettura che ne ha dato Elvio  Fachinelli (il territorio “proibito”). L’amore non è che l’istanza al ritrovamento impossibile dello (stesso) oggetto: la madre (v. Contributi alla psicologia della vita amorosa). Dopo il 1920, con Al di là del principio del piacere, la nostalgia amorosa acquisterà la forma insidiosa e insistente dell’automatismo di ripetizione. In Freud l’amore è indissolubilmente vincolato alle leggi della pulsione (la distinzione tra pulsione e amore in Freud è aperta e problematica) che costringono alla ricerca indefinita dell’oggetto perduto del primo soddisfacimento. In questa prospettiva la dipendenza dall’oggetto d’amore è caratterizzata dall’angoscia di perdere il suo amore non “in quanto tale” (come sarà per Lacan) ma perché necessario alla sopravivenza (investimento anaclitico) o perché essenziale al recupero dello splendore originario (narcisistico). Nell’ambito della concezione freudiana dell’amore emerge tutta l’aporia relativa allo statuto  dell’oggetto.

I   La teoria del narcisismo

Con il saggio del 1914 Freud elabora la propria teoria del narcisismo che, per sua stessa ammissione, non lo soddisfa pienamente. Essa gli pone questioni fondamentali, prima fra tutte quella relativa alla distinzione tra le due libido, ossia tra libido investita sull’Io, narcisistica, e libido d’oggetto, ossia libido nel senso stretto del termine. In polemica con Jung che ormai ne ha fatto tutt’uno,  Freud ribadisce con forza la necessità di mantenere la distinzione tra libido narcisistica e libido oggettuale. La tesi centrale del saggio rischia però di essere in contraddizione con le sue premesse. I due tipi di libido sono infatti regolati dalla legge dei vasi comunicanti che in qualche modo le rendono equivalenti: quanto più una cresce tanto più l’altra si depaupera, e con essa il sentimento che l’Io ha di sé stesso. Cosa le differenzia veramente, allora? Freud uscirà da questa complicazione considerando l’investimento del soggetto sull’Io come “narcisismo secondario”, ossia come reinvestimento di libido oggettuale, e dunque libido nel senso stretto del termine, sull’Io. Il narcisismo primario è invece quel processo originario e costitutivo che procede dall’autoerotismo, per il quale il soggetto è in grado di investire il proprio Io nel momento in cui esso esiste come unità. L’ipotesi (ripresa poi da Lacan) è che tale unificazione sia resa possibile dall’identificazione con l’immagine di sé da cui il soggetto è catturato nell’ambito del rapporto con l’altro.

La teoria freudiana del narcisismo e la corrispondente concezione dell’amore ha dunque come premessa e cardine la contrapposizione ma anche (questa è l’aporia) l’indissolubilità tra libido dell’Io (narcisistica) e libido d’oggetto. E’ nell’amore di sé che origina l’amore per l’altro, per essere precisi nella fascinazione per l’immagine infantile, perfetta di noi stessi. Dell’originario investimento libidico da parte dell’Io sull’Io stesso, a un certo punto, una quota è ceduta agli oggetti ed ha con la prima “la stessa relazione che il corpo di un organismo ameboide ha con gli pseudopodi che emette”. Il travaso libidico –necessario per lo  psichismo, ci dice Freud - sugli oggetti segna la traumatica rinuncia all’originario narcisismo infantile, quando eravamo “his majesty the baby”, perfetti e completi, “oggetti del nostro proprio amore”. Il passaggio di libido dall’Io agli oggetti e viceversa è un movimento che non si esaurisce con l’infanzia ma procede per tutta la durata dell’esistenza. Ossia non è un movimento evolutivo, progressivo, ma logico. La condizione in cui l’Io è massimamente impoverito dal punto di vista libidico -poiché massimo è l’investimento libidico sull’oggetto- è lo stato di innamoramento. Quella che Freud, sfatando ogni concezione romantica o religiosa dell’amore, considera la sopravvalutazione sessuale dell’oggetto prescelto non può che originare dal narcisismo infantile: le preziose qualità originariamente attribuite all’Io vengono trasferite sull’oggetto d’amore, e con esse la libido. L’investimento dell’oggetto avvilisce, dunque, il sentimento di sé. “…L’innamorato è umile” perché ha rinunciato a una parte consistente del proprio narcisismo. Secondo Freud l’unico modo per recuperarlo è quello di essere amato a sua volta. L’oggetto a cui è rivolta la scelta d’amore si costituisce come oggetto ideale, ossia come quell’oggetto a cui l’Io indirizza l’amore di cui è stato oggetto nell’infanzia. Dall’insulto che è stata per l’Io la rinuncia al narcisismo infantile nasce il tentativo di riconquistarlo in una nuova forma che è quella di Ideale dell’Io. Esso non è che il sostituto del narcisismo perduto dell’infanzia, l’epoca in cui l’Io  stesso era “il proprio ideale”. E’ a questo oggetto prescelto e idealizzato, dunque, a cui il soggetto affida l’impossibile compito di ripristinare l’immagine narcisistica infantile, chiedendogli la restituzione della completezza e della perfezione dell’origine. Il sentimento di sé, il proprio narcisismo dipenderanno dalle vicissitudini del rapporto tra il soggetto e il proprio Ideale dell’Io costituito come oggetto, con tutti gli inconvenienti del caso. L’oggetto sopravvalutato, l’oggetto d’amore, dunque, è un oggetto sul quale per definizione “cade l’ombra del soggetto”, nella forma dell’immagine idealizzata di sé. Anche nella migliore delle ipotesi la concezione freudiana dell’amore, vista dal lato del narcisismo, non prevede la possibilità di amare un oggetto che non sia almeno un po’ un riflesso dell’amore per un sé stesso idealizzato. Un “oggetto in sé”, amato “in quanto tale” in Freud non è previsto, né egli sembra preoccuparsene.

L’Io proietta nel mondo esterno il proprio ideale e, attraverso il meccanismo dell’identificazione, colloca l’oggetto amato e prescelto al posto del proprio ideale dell’Io che a sua volta si è formato attraverso le identificazioni con i primi oggetti d’amore. Il fondamentale contributo freudiano alla psicologia della vita amorosa del testo del ’14 consiste nell’affermare l’equivalenza tra oggetto e ideale dell’Io.

A questo livello del sistema di pensiero freudiano la vera posta in gioco dell’amore che è “di per se anelito e privazione” è dunque il recupero di una mitica pienezza dell’origine. Nel terzo paragrafo di Introduzione… Freud mette esplicitamente in relazione la rinuncia al narcisismo infantile e l’esito che ne consegue nella forma del “complesso di evirazione”. Le vicissitudini del narcisismo, intese come tentativo di recuperare la perfezione originaria, segnano lo sviluppo dell’Io il cui sviluppo risulta indissolubilmente legato all’immagine di sé che l’altro riflette e che in continuazione gli rimanda. Il tema della mancanza nell’ambito della teoria freudiana del narcisismo viene affrontato sul piano egoico, ossia in termini di ampiezza o/e restringimento del sentimento di se in riferimento all’Io ideale. Il piano narcisistico permette al soggetto di mantenere l’illusione che il danno legato alla mancanza possa ancora essere sanato. Il rimando all’altro idealizzato a cui è affidata la propria immagine vagheggiata rinvia  indefinitamente l’accesso alla “vera” mancanza. Di questa trappola, Freud illustra tutte le insidie che si manifestano nel corso della cura, se essa si trasforma in “cura attraverso l’amore”. In psicoanalisi l’amore è transfert (e il transfert è amore) ed è il transfert il vero ispiratore e protagonista del testo del ’14, scritto tra due testi sulla tecnica. Nel corso della cura è dunque all’analista che si chiede la restituzione di quanto ci è dovuto, di ciò che era nostro prima della caduta dal paradiso. E’ Lacan che riprenderà il tema del rapporto tra l’Io e l’ideale nella dialettica immaginaria dello specchio (Lo stadio dello specchio, 1936). Nel descrivere quella che nel suo sistema di pensiero costituirà la prima teoria dell’alienazione, Lacan espliciterà la componente aggressiva che lega l’Io all’oggetto idealizzato, per essere precisi alla sua immagine. Immagine che non è, come ormai sappiamo, che un sostituto del narcisismo perduto dell’infanzia. E soprattutto svelerà le trappole che riserva la dialettica immaginaria.

In Freud la teoria del narcisismo è indissolubilmente legata alla teoria dell’identificazione concepita come quel meccanismo attraverso il quale può avere luogo la strutturazione primaria dell’Io del soggetto (Io che è inizialmente corporeo) sull’immagine speculare. E’ da questo punto –il rapporto del soggetto con la propria immagine idealizzata- che Lacan ripartirà nel formulare la topica dell’immaginario che costituirà la prima tappa nella sua costruzione dell’organizzazione psichica. 

 II  L’altro non è l’Uno

Quella freudiana è fin qui dunque una concezione per la quale l’amore per l’altro non è che illusione: siamo noi stessi ad essere amati in lui, o per meglio dire la versione perfetta di noi traumaticamente perduta. E nell’altro cerchiamo il risanamento dell’antica ferita.

 Nel testo del 1914 Freud ancora non affronta il tema dell’ambivalenza,  ossia della spinta opposta all’amore che è ad esso indissolubilmente legata, anche se già ne lascia intravedere tutte le premesse. Essa viene affrontata nei testi sulla metapsicologia (1915). In accordo al movimento pulsionale illustrato in Pulsioni loro destini, la comparsa dell’oggetto rompe la condizione di narcisismo primario lasciando emergere l’odio. Coerentemente alla prima suddivisione pulsionale, Freud fa originare l’odio dalle pulsioni di autoconservazione, in quanto rifiuto narcisistico dell’Io rispetto al mondo esterno come fonte disturbante di stimoli. Sebbene in termini diversi da quelli che costituiranno la teorizzazione del ’20, è già qui per Freud chiaro che il piacere è legato al mantenimento di uno stato minimo di eccitazione e al rigetto degli stimoli che perturbano un’omeostasi. Questo è forse il saggio dove è esposta nel modo più chiaro e organico la concezione freudiana del funzionamento psichico all’insegna di coppie di opposti di cui uno è il reciproco dell’altro, che si manterrà costante nella sua struttura anche se non nei contenuti.

 Il destino pulsionale è segnato dunque dalle tre polarità di piacere-dispiacere, attività-passività, Io-mondo esterno. L’Io, nella sua ricerca di piacere scinde il mondo esterno (e sé stesso) in una componente piacevole che viene introiettata, e nel resto che gli è estraneo, nemico, spiacevole. Questa operazione, insieme al tentativo dell’Io di sfuggire gli stimoli che siano o meno pulsionali -e che, dunque, può o meno sortire effetti- fornirà un criterio fondamentale per  distinguere un “fuori” da un “dentro”. Tale  doppio movimento segnala il continuo tentativo di ripristinare la condizione di unità indifferenziata, come sarà ancora più chiaro con l’introduzione della seconda topica. Esso verrà ripreso e tematizzato da Freud in nel saggio La negazione (1925), poche pagine in cui è esposta una vera e propria teoria sulla costruzione del soggetto fondata sul lavoro del negativo.

Ciò che è esterno all’Io è straniero e apportatore di stimoli, quindi odiato,  ma anche necessario ad introdurre un iniziale rapporto con ciò che è estraneo. A questo punto della ricerca freudiana l’amore è quella capacità di soddisfare un moto pulsionale conseguendo un “piacere d’organo”  attraverso un oggetto, l’elemento, secondo Freud, più variabile della pulsione. Lacan, al contrario, rifiuterà di assimilare l’amore al piacere d’organo e alla pulsione. Tale piacere che è inizialmente narcisistico (e ancora prima autoerotico), viene turbato dalla comparsa dell’oggetto, evento necessario alla sopravvivenza stessa dello psichismo, che è subordinata alla possibilità di amare. Qui Freud assimila all’amore, come sue fasi “preliminari”, l’incorporare o divorare, una “specie di amore compatibile con l’abolizione dell’esistenza separata dell’oggetto”. La spinta ad appropriarsi dell’oggetto a costo di danneggiarlo rende ancora più evidente l’ambivalenza (l’odio) per l’oggetto e il desiderio di annientarlo, di renderlo tutt’uno con il soggetto.

L’odio è dunque, coerentemente alla prima teoria pulsionale, al servizio delle pulsioni dell’Io, ossia risponde al rigetto che l’Io narcisistico oppone al mondo esterno come sorgente di stimoli e al tempo stesso necessario per iniziare ad entrare in contatto con esso. L’apparente stravolgimento che Freud compirà appena cinque anni dopo con la formulazione della seconda teoria pulsionale ha qui tutte le necessarie premesse: le pulsioni di morte  lavoreranno al servizio del ritorno all’inorganico della materia vivente, come paradossale tutela dal mondo esterno. Esse punteranno a ripristinare lo stato di quiete in base alla loro natura conservativa, e a mantenere minima la quantità di eccitamento. Lavoreranno nel senso di un definitivo recupero dell’unità.

L’Io è dunque costretto in quella che sembra una doppia morsa: da un lato esso è obbligato dalla pulsione alla ricerca del “piacere d’organo”, nonché “costretto ad amare per non ammalarsi”. E’ costretto da un lato ad uscire da sé stesso e dal proprio narcisismo e ad andare verso l’altro, verso l’oggetto. Dall’altro deve, per costituirsi e preservarsi, ricorrere al rifiuto, all’odio per l’estraneo come apportatore di stimoli e dunque di nuovo al ripiegamento su se stesso. 

Il breve e densissimo testo del ‘15 da un lato anticipa lo sviluppo ulteriore dei temi cari a Freud e che egli affronterà da una differente prospettiva in  testi capitali come La negazione e Al di là del principio del piacere.   Dall’altro riprende temi antichi e per lui altrettanto capitali. Come non riconoscere in ciò che in Pulsioni e loro destini viene descritto come estraneo e dunque odiato quella componente Fremde della realtà, quel resto inassimilabile di cui Freud già parlava nel Progetto? Si può dire che in questo saggio Freud affronta per la prima volta il tema dell’estraneo perturbante anche se in una forma del tutto differente rispetto a quella del testo del ’19.

E’ inoltre il testo dove l’idea di amore è più assimilata a quella di pulsione.

III   L’oggetto così mutevole, così irrinunciabile. 

La condizione melanconica nella prospettiva freudiana (1915) è quella che più di ogni altra illustra la relazione che lega un soggetto ad un oggetto che ha valore di ideale dell’Io, un oggetto narcisistico. Essa si rivela il momento in cui questo oggetto viene perso. Il legame del melanconico con il proprio oggetto è strutturato in modo tale che egli abbia riversato una cospicua quota libidica sull’oggetto idealizzato, e si sia al tempo stesso con l’oggetto identificato. In base al principio dei vasi comunicanti o alla metafora dell’ameba e dei suoi pseudopodi, la perdita di un oggetto siffatto non è allora una perdita oggettuale ma una perdita per l’Io stesso, uno “svuotamento libidico”. Non è l’Io il vero oggetto delle lagnanze e dei rimproveri spietati e incessanti che il soggetto rivolge a se stesso, ma lo stesso oggetto perduto. “L’ombra dell’oggetto è caduta sull’Io”. La perdita dell’oggetto investito  narcisisticamente ha dunque risvegliato l’odio che qui vediamo dispiegato accanto all’amore. Il miraggio che l’oggetto faccia parte dell’Io, che sia in esso riassorbito come parte indistinguibile, nella perdita non può più essere mantenuta. L’oggetto che si sottrae si presenta in tutta la sua spaventosa estraneità, altro, separato e per questo nemico. L’illusione che la presenza dell’oggetto sperimentato e utilizzato come parte di sé possa risanare l’Io e restituigli la perfezione e la compiutezza originaria è caduta. Eppure questo non placa l’Io. Al contrario, esso si ostina a mantenere il proprio investimento ambivalente sull’oggetto, proprio non ne vuole sapere di farne il lutto, di ammetterne la perdita. Il legame è tenace almeno quanto le denigrazioni e il disprezzo che l’Io riserva, solo in apparenza, a se stesso. Il paradosso che nella teoria freudiana è riservato all’oggetto nella  melanconia appare tutto. Da una parte l’oggetto è sempre ritrovato o da ritrovare, modellato sulla forma di quello originario, quel primo Altro perduto e insostituibile  (chi se non la madre?) che costringe il soggetto ad una ricerca incessante ed altrettanto vana, poiché l’oggetto sarà sempre per definizione un altro. Dall’altra l’oggetto è la componente più variabile della pulsione, non va sopravvalutato, ci dice Freud, in fondo è solo ciò a cui la pulsione si dirige per soddisfarsi, anzi, per soddisfare un piacere d’organo. Nella formalizzazione del meccanismo della melanconia il paradosso che caratterizza l’oggetto mostra la corda ed esso non appare affatto così variabile, anzi. Solo la tenacia dell’attaccamento dell’Io per il proprio oggetto all’insegna sia dell’amore che dell’odio può dare la misura di quello che è in gioco nella melanconia ed in generale nel narcisismo, dunque  nell’amore. Quello che l’Io cerca di fare attraverso l’oggetto è, a questo livello, risanare sé stesso, ricondurre l’altro a sé –l’Altro all’Uno- e recuperare così la mitica condizione di unità originaria e perduta che nega la mancanza, ossia la castrazione come legge universale e necessaria. Il soggetto non tollera la perdita dell’oggetto che aveva il compito di risanarlo rispondendo così a questa domanda senza risposta. Il suo sottrarsi definitivo non può che suscitare l’odio del soggetto, e il rifiuto di rassegnarsi alla perdita. E, tutt’altro che mutevole, l’oggetto deve essere quello, proprio quello.

La dialettica freudiana del narcisismo, tutta declinata sul piano dell’Io, risponde a quel gioco di rimandi speculari tra l’Io e il suo ideale che Lacan espliciterà. Anche la suddivisione del tipo di scelta oggettuale in narcisistica e anaclitica non sfugge alla fondamentale dialettica narcisistica. Nel secondo caso si tratta di un’identificazione con l’altro che nutre, non così diversa nella sua funzione. Sembra che per il soggetto non sia prevista, in fondo, una via d’uscita all’illusione di un ripristino della completezza originaria. La spinta è quella al completamento di sé, a quel “risanamento” di cui si parla nel Simposio platonico e che Freud citerà in Al di là del principio del piacere.

In Lutto e melanconia Freud aggiunge un tassello fondamentale alla sua teoria dell’identificazione. L’identificazione è un meccanismo strutturale che rappresenta la forma più antica di legame emotivo con l’oggetto, e che in via regressiva può diventare il sostituto di un legame libidico. Come chiarirà in seguito, il tipo di identificazione descritta nel testo del ‘15, che prende regressivamente il posto dell’investimento oggettuale non è peculiare del melanconico ma ubiquitaria. Essa non solo rappresenta la forma più antica di legame con l’oggetto ma ha valore strutturale e “concorre in modo notevole alla configurazione dell’Io, contribuendo in modo essenziale a ciò che viene chiamato il suo carattere”. Come a dire che nessuno sfugge allo stesso modo di fare il legame d’amore, che è un modo essenzialmente narcisistico.

In accordo alla teoria freudiana del narcisismo l’oggetto d’amore è inserito in un movimento centripeto al servizio della fascinazione esercitata dall’immagine ideale. Il tentativo è quello di ritrovare la perfezione originaria.

IV  L’amore è nostalgia. La “svolta” del ‘20

Secondo lo stile che gli è usuale, è solo al culmine dell’impervio percorso che lo porta a formulare la seconda teoria pulsionale, che Freud ci svela il topos che ha guidato dall’inizio la logica del suo procedere: il mito platonico dell’amore. Le due metà di esseri originariamente interi, esito del taglio operato da Zeus come punizione per la loro protervia, sono condannate ad estinguersi l’una senza l’altra. Esse si cercano dunque incessantemente per riunificarsi e ricucire così l’antica ferita. Platone, già citato nella prefazione a Tre saggi serve adesso a Freud per illustrare la sua nuova teoria pulsionale e soprattutto quella che ne è la reale essenza, sovente misconosciuta: la dualità di Eros e Thanatos si rivela al fondo illusoria. Anche Eros, come Thanatos, tende a ripristinare l’equilibrio precedente, lo stato di quiete della materia inorganica, è conservativa. Questo è il segreto scabroso della seconda topica e probabilmente in esso risiede il motivo che ha portato perlopiù alla sua scotomizzazione. Eros e Thanatos, le pulsioni di vita e le pulsioni di morte, articolate l’una all’altra da una apparente opposizione, sono guidate dalla stessa finalità che, in un inquietante paradosso, le porta a confluire in un’unica pulsione che tende all’unità e alla quiete, e che ha le caratteristiche di Thanatos, anche nell’amore. Anche il legame d’amore, dunque, nel suo tendere all’unione, assume una forma regressiva, ripetitiva. Del resto, ci ricorda Freud, il percorso della sostanza vivente è una corsa verso la morte di cui Eros non costituisce che una “deviazione errabonda”. “Non dobbiamo più contare sulla misteriosa tendenza dell’organismo ad affermarsi contro tutto e tutti”, dice Freud, “…l’organismo vuole solo morire alla propria maniera”. Che ne è dunque di Eros, di quella spinta vitale all’evoluzione, all’adattamento? Freud ne sottolinea, in fondo, l’esilità, la non chiara origine, la sudditanza all’altra e più vera pulsione, e la dipendenza da “fattori esterni”, elemento già rilevato da Ferenczi. Ma soprattutto il suo rispondere agli stessi principi che guidano Thanatos.

La concezione dell’amore espressa da Freud in Al di là del principio del piacere è coerentemente articolata alla sua teoria della pulsione, in essa ha le sue radici. Nell’insistenza con cui nel fort-da si manifesta l’istanza a ri-trovare (e subito dopo a perdere) l’oggetto (la madre, l’oggetto che è sempre da ri-trovare) c’è tutta  la misura dell’inerzia, della ripetitività della pulsione. A Freud non sfugge infatti lo svincolarsi del movimento di perdita (“da…”) dalla totalità del gioco, che segnala ciò che va oltre, che eccede il piacere e diventa un altro scabroso piacere, un piacere al di là.

Il legame d’amore (termine “polivalente”, dice Freud con lo scetticismo che gli è proprio) tende dunque alla quiete e alla riunificazione, a ritrovare l’interezza, la compiutezza. Al tutto che precede ogni separatezza, ogni inquietudine. Solo che a questo scopo Eros, la vita, percorre le sue strade, spesso imprevedibili e antieconomiche, certo non lineari. Vuole morire alla propria maniera. La vita indefinitamente si preserva da quell’apertura all’ignoto che è la vita stessa e per fare questo imbocca strade tortuose che anticipano la morte e la perseguono. 

A questo punto del suo percorso a Freud sono dunque chiare le insidie che riserva la ripetizione, di ciò che si oppone al ricordo e che si manifesta nella cura in tutta la sua potenza demoniaca. Dal transfert Freud ha appreso suo malgrado che ripetere è necessario, che il nemico non si sconfigge in abtentia o in effige, tuttavia questo passaggio non è garanzia di risultato. Non è detto che la ripetizione generi il ricordo e che il ripetere non imbocchi un suo svincolato percorso, come accade nel gioco del rocchetto.

V Le peripezie dell’amore di transfert         

In psicoanalisi l'amore è l’amore di transfert, il fenomeno che Freud aveva riconosciuto suo malgrado e in ritardo rispetto ai drammatici segnali che aveva prodotto nel suo dispiegarsi. Esso è il teatro della ripetizione e il luogo in cui il soggetto rivolge la propria domanda  all'Altro. E’ anche il luogo del cambiamento o il luogo dell’impasse. E’ nell’ambito del transfert che si gioca la possibilità per il soggetto di fronteggiare quel movimento centripeto pulsionale e fantasmatico che, sia sul piano narcisistico che su quello della ripetizione, frena l’uscita da sé. Secondo Freud ogni cura è destinata ad infrangersi contro lo scoglio dell’angoscia che impedisce al maschio di sottomettersi ad un altro maschio. In altre parole contro l’angoscia di castrazione. Nella sofferta risposta a Ferenczi, Freud sembra rassegnato ad arrendersi all’evidenza clinica che essa non manca di presentarsi nel corso di una psicoanalisi, mostrandosi tuttavia irriducibile al trattamento. Da qui la reazione terapeutica negativa. Quel primato del fallo individuato da Freud ha le sue leggi che regolano lo psichismo, alle quali i soggetti non sarebbero dunque realmente in grado di sottomettersi. Troppo potente l’angoscia di rinunciare alla libbra di carne, rinunciando con essa all’illusione di totalità e di recupero della pienezza originaria. Eppure la castrazione è il presidio necessario anche se forse non sufficiente a tale rinuncia. 

Il passo lacaniano che va oltre la prospettiva freudiana è il transito dall’angoscia di castrazione (e il relativo complesso) che Freud ci prospetta come invalicabile, dunque alla necessità di sottomettersi alla castrazione, che diventa la posta in gioco della cura. L'Altro, l’analista, a un certo punto, verrà finalmente (come il soggetto stesso) sentito come mancante, come qualcuno che non può rispondere alla richiesta di riempire il vuoto fisiologico dovuto alla mancanza. Un vuoto che non può e non deve essere riempito perché è la garanzia che evita la mortifera ri-fusione on la madre sebbene essa seguiti ad essere indefinitamente cercata. E con essa l’illusorio risanamento dell’antica ferita che può indurre l’analista a rispondere alla domanda del paziente e indulgere così alla “cura attraverso l’amore”. Alla prospettiva dell’alienazione narcisistica e alla mancanza si sostituisce una concezione contrapposta secondo la quale è possibile sanare i danni di una “carenza” di cure e di amore. L’originario e illustre  esempio di questa concezione è naturalmente Ferenczi.

Con l’accesso alla castrazione diventa possibile avere a che fare con oggetti e piaceri parziali, residui di un piacere assoluto e regolati dalla legge fallica. L’oggetto mitico originario e fonte di piacere assoluto è perduto, cosa che non impedisce di volerlo recuperare, si può dire che questo tentativo costituisce uno sforzo essenziale per lo psichismo. Quello che è in gioco è la rinuncia alla unità perduta e all’orizzonte di scabroso godimento che la caratterizza, a favore dell’uscita da sé e dell’apertura radicale all’Altro e all’inconscio. La rottura del movimento centripeto di ritorno a sé facilita lo sganciamento da un oggetto che, come abbiamo visto, non è così rinunciabile, e l’apertura all’Altro nel reale dell’incontro.

Posizione non solo tecnica ma squisitamente etica quella dell’analista che lavora nel verso della castrazione, orientata all’attraversamento dell’angoscia legata alla perdita dell’illusione di padronanza che segnala il rifiuto di rinunciare all’unità.  

 In Freud la concezione del legame d’amore sia sul piano egoico (narcisistico) che pulsionale (insistenza di ripetizione) prende la forma di un movimento centripeto, che frena l’uscita da sé e l’apertura all’Altro. L’impossibilità di accedere alla castrazione mantiene il legame con il piacere assoluto su cui la ripetizione si sostiene. Trattiene la spinta di apertura all’esterno. Lacan dichiara la necessità di andare oltre e prospetta la sottomissione alla castrazione come fine di una cura, radicalizzando più tardi la sua posizione con l’introduzione di un al di là del fallo, individuato nel godimento femminile.

Simile a quella lacaniana la posizione di Fachinelli che, soprattutto  nell’ultima fase della sua ricerca, prevede per l’analista una posizione di apertura estatica di chiara marca femminile.

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