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Cancrini T. - Una ferita all’origine (2013)

CENTRO DI PSICOANALISI ROMANO, CENTRO PSICOANALITICO DI ROMA

BIBLIOTECA DEI CENTRI

 9 marzo 2013

Tonia Cancrini - Una ferita all’origine 

Mi fa molto piacere di poter parlare qui con voi di questo libro Una ferita all’origine che ha per me un significato molto importante per diversi motivi.

Innanzi tutto riguarda un campo di lavoro e di applicazione della psicoanalisi molto importante e significativo e che può avere un grande sviluppo. Il lavoro cioè con bambini fortemente traumatizzati che possono trovare nella terapia psicoanalitica una possibilità di elaborazione della sofferenza e del trauma.

Nelle mia esperienza di vita e di lavoro come psicoanalista mi sono molto interessata al tema del dolore. Il mio libro Un tempo per il dolore si occupa delle diverse forme di dolore, di quanto il dolore possa essere terribile, a volte intollerabile e invivibile, ma anche di quanto sia importante dare al dolore una possibilità di essere vissuto e di essere espresso.

In questo libro, La ferita all’origine, che abbiamo curato  Daniele Biondo e io ci siamo occupati di bambini sopraffatti dal dolore, bambini che hanno subito una  ferita all’origine, un abbandono, una mancanza di attenzione e di accudimento, e che hanno subito delle violenze che li hanno colpiti in modo reale sul proprio corpo, ma ancora di più delle violenze vissute nel proprio animo. Si tratta sia di bambini adottati che di bambini  fortemente traumatizzati nelle loro prime esperienze di vita. Attraverso  i casi clinici discussi abbiamo cercato di ricostruire quello che questi bambini hanno vissuto e provato profondamente.

La ferita più profonda, quella terribile e a momenti insuperabile, riguarda qualcosa di molto primitivo e ci rimanda necessariamente lontano nel tempo, alle prime esperienze e in particolare alla mancanza di un buon rapporto con l'oggetto primario. Esperienze conservate nella memoria implicita e capaci di condizionare del tutto la vita affettiva e mentale (Mancia). È infatti il buon rapporto con l'oggetto primario, la madre,  che crea fiducia  in sé e nell'altro.

Sappiamo infatti quanto siano importanti i primi momenti dello sviluppo e quanto fondamentale la relazione madre - bambino e ancora quanto essenziale sia in particolare la funzione della mente della madre nel primo rapporto con il bambino. La madre infatti  non solo può sentire affettivamente i bisogni del suo piccolo, ma può  comprenderli e dar loro un senso, aiutando così il bambino a esprimere sempre di più quello che prova. Attraverso la fiducia, la sicurezza, l’amore e l’attenzione, la madre costruisce e fornisce al bambino il senso di sé e della relazione. Se nel rapporto primario prevale l'amore e l'accudimento affettivo e mentale c'è  un'acquisizione di fiducia e di benessere interno.

Ma che cosa accade quando tutto questo viene a mancare? Quando la madre non riesce a espletare questa funzione di amorevole contenimento e comprensione, perché non c’è o non è in grado di avere un’adeguata attenzione verso il bambino? Quando invece dell’abbraccio caldo c’è la violenza e il freddo della mancanza e della deprivazione? Possiamo immaginare che, mancando radici solide su cui costruirsi,il bambino non riesca a riconoscersi, né ad attivare dentro di sé le forze vitali, che si senta sprofondare nel nulla e cadere in un abisso senza fine. Si ritrova nel dolore e nella violenza di una ferita che brucia e che fa male e che lo getta nel caos di emozioni invivibili. Una ferita all’origine della vita è come una lama tagliente che continuamente colpisce con violenza e lascia in uno stato di sofferenza e di disintegrazione o di vuoto perché ogni emozione troppo dolorosa e intensa viene annullata.

Nel libro abbiamo un esempio delle prime interazioni madre –bambino nel lavoro molto interessante di Adelaide Lupinacci, che ci mostra, attraverso un dispiegarsi di piccole ma significative esperienze, come l’attenzione e lo sguardo della madre hanno un impatto immediato e significativo sull’umore e il comportamento della bambina e certamente diventano l’asse portante dell’istaurarsi della relazione e quindi del sé della bambina.  E l’osservazione ci fa anche vedere che, dove la mente della mamma è distante e distratta, dove non c’è uno sguardo attento e partecipe, diventa per la bambina difficile vivere delle emozioni: viene meno il piacere e il dolore diventa invivibile.

Quanto possa essere devastante l’effetto dell’assenza dello sguardo e dell’attenzione primaria lo vediamo anche nel caso di  Sergio, il bambino di cui ci parla  Mirella Galeota, che,  arrivato in analisi a quattro anni, non parla, è chiuso e non si riesce ad agganciare il suo sguardo. Immaginiamo così una giovane madre distratta nei suoi pensieri e nelle sue difficoltà che non ha sempre il bambino nella sua mente  e a volte sembra perderlo con effetti terribili sul piccolo che deve aver avuto a momenti la sensazione di non esistere e di cadere a pezzi. Via via che l'analisi procede e Sergio avverte lo sguardo dell'analista e sente sempre di più di essere nella sua mente, riprende vigore e vitalità e può cominciare a vivere le sue emozioni. Ora - dopo alcuni anni di analisi - parla, si esprime, apprende e vive normalmente.

Anche Marco di cui ci  parla Elisabetta Greco è un bambino non desiderato e non accolto nella mente dei genitori giovani e incapaci di creare per lui un ambiente familiare e accogliente. “Le mani calmanti” dell’analista che  accolgono i pallini di pongo che riesce a un certo punto a creare permettono  di ritrovare un rapporto  in cui il bambino si sente pensato e capito. Un rapporto dunque che lascia un segno importante, dove “i mostri mostruosi” si sono potuti trasformare in disegni, rappresentazioni, pensieri. Tutto un patrimonio, regalatogli dalla  sensibilità e dall’attenzione dell’analista, che il bambino cerca disperatamente di portare con sé anche quando i genitori decidono di interrompere l’analisi.

Dal buio della solitudine e dell’incomprensione come nei casi seguiti da Mirella Galeota e Elisabetta Greco, passiamo poi nella dimensione devastante della violenza e della distruttività come per Paulo, Laura, Anna, casi seguiti da Daniele Biondo, Marina Parisi e Francesco Burruni. Pensiamo a Paulo, il bambino di cui ci parla Daniele Biondo, che è stato adottato dopo aver subito violenze e abbandoni nel suo paese di origine. Una situazione complessa e difficile che ha richiesto una grande capacità analitica ma anche un'enorme partecipazione affettiva da parte di chi se ne è fatto carico proprio per la necessità non solo di capire, ma anche di ricostruire una fiducia profonda nell’oggetto primario e una speranza. E pensiamo ancora a Laura, di cui ci racconta Marina Parisi,una bambina adottata, che ha subito un doppio abbandono, dalla famiglia e poi dai primi genitori adottivi,  e che, dopo aver portato  in analisi tutto il suo dolore e la sua rabbia con una violenza e una distruttività a fatica contenute nella stanza di analisi, sarà poi di nuovo capace di pensare, di ricordare, di narrare e sentirà allora il bisogno di ricostruire la sua storia e la scriverà davvero in un piccolo libro che sarà poi anche pubblicato. E infine pensiamo ad Anna, la bambina della neve che passerà dalle torture alla conquista di un rapporto in cui può sentirsi accolta e accudita

Entrando in contatto con il deserto affettivo e con vissuti di dolore e violenza incontenibili, come nel caso di questi bambini molto traumatizzati da esperienze precoci destabilizzanti, non possiamo non chiederci che cosa possiamo fare per aiutarli. E, come psicoanalisti ci siamo chiesti – e sono le domande a cui il libro cerca di dare una risposta -  se e come la psicoanalisi può essere uno strumento per affrontare queste ferite profonde. Cosa possiamo fare con la psicoanalisi infantile? E come dobbiamo lavorare per rendere questo intervento terapeutico efficace in questi casi?

L’esperienza psicoanalitica realizzata con questi bambini adottivi e traumatizzati ci ha mostrato come il lavoro ai livelli primitivi della mente sia in grado, purché condotto con profondo coinvolgimento e generosità da parte dello psicoanalista, di ripristinare una capacità mentale e affettiva che permette al bambino di sciogliere l’impasse emotivo e di crescere. Il fattore terapeutico principale che viene attivato nella psicoanalisi dei bambini adottivi e precocemente traumatizzati riguarda la possibilità di andare all’origine, nel luogo mentale in cui la dolorosa ferita originaria brucia e alimenta nel bambino la disperazione. La psicoanalisi permette al bambino di affrontare la ferita, di condividerla, di vivere  l’esperienza del soffrire il dolore e di riprendere così un contatto con le sue  emozioni.

Per riuscire a fare questo è necessaria una profonda e calda partecipazione che permetta  il rinascere della fiducia e dell'affetto. Possiamo così piano piano costruire una nuova fiducia nell’oggetto primario e ridare così vita alla speranza e all’amore. Ma questa fiducia – per poter essere costruita dalle fondamenta – deve necessariamente passare attraverso la condivisione del dolore e della disperazione. La psicoanalisi può dunque gettare un ponte con il passato aiutando a ricostruire una propria storia sia interna che esterna: una continuità all'interno di sé molto importante per riprendere spessore e vigore.

E in queste situazioni non possiamo non porci il problema – e se lo chiede Carla Busato Barbaglio nel suo lavoro nel libro – di come possiamo affrontare “il mal di vita” che ci portano questi pazienti così deprivati di energia e di amore. Come rimanere vivi “anche di fronte all’assenza di vita dell’altro”. Una via importante per affrontare situazioni a volte così drammaticamente  devitalizzanti  è per Carla saper stare nel piacere dell’incontro. E’ così che si crea una relazione significativa che può sanare delle ferite profonde e che può, anche nelle situazioni più drammatiche e disperanti, ricostruire la fiducia in un buon rapporto.

Per ottenere  questo risultato è fondamentale l’assetto interno dell’analista, la sua capacità di rimanere vivo e “compagno vivo”, come sottolinea a più riprese Anna Alvarez, non a caso citata da tutti gli autori del libro. 

Ed è per questo motivo che nell’introduzione ricordo Rosa Luxemburg che  affronta il dolore e la violenza e non soccombe al trauma proprio perché ha in sé un'attrezzatura interna adeguata. Una ricchezza interiore che le ha permesso di non sentirsi sola neppure nell’isolamento  e nell'oscurità della prigione perché anche lì sapeva custodire il calore dell' affetto. Questa possibilità così importante, questo patrimonio interno così significativo appare con evidenza in una lettera molto bella di Rosa Luxemburg scritta dal carcere di Breslavia alla sua amica Sonja, nel dicembre del 1917. Rosa Luxemburg scrive: “In quei momenti penso a voi, a quanto mi piacerebbe potervi dare la chiave di questo incanto, perché vediate sempre e in ogni situazione quel che nella vita è bello e gioioso” Questo “penso a voi” ci fa capire come sia possibile ritrovare una gioia interiore, perché è proprio nel pensare alle persone amate e quindi nel rapporto con loro, che può essere ritrovata la serenità e la gioia. E ancora scrive Rosa Luxemburg: “Vorrei soltanto donarvi, in aggiunta, la mia inesauribile letizia interiore, così da poter essere serena riguardo a voi, pensando che attraversiate l’esistenza avvolta in un mantello trapunto di stelle, in grado di proteggervi.”

La ricchezza interna del suo animo le permette di condividere le emozioni altrui, di provarle dentro di sé, e quindi di non sentirsi sola.

E tornando allora a noi e al nostro lavoro, quando entriamo in contatto con il deserto affettivo e con vissuti di dolore e violenza incontenibili,  allora, come abbiamo già detto, siamo chiamati a vivere con i nostri pazienti questa dimensione di sofferenza così acuta e violenta, ma nello stesso tempo a far loro sperimentare una nuova esperienza di calore e vitalità. Per riuscire a fare questo è necessaria una tecnica analitica raffinata che sia in grado nel transfert e nel controtransfert di operare delle trasformazioni vitali, ma anche una profonda  generosità e  una calda partecipazione che permetta  il rinascere della fiducia e dell'affetto.

E certamente un mantello trapunto di stelle è quello che vorremmo dare - e forse a volte un po' ci riusciamo -  ai nostri pazienti, soprattutto a quelli così provati da mancanze profonde, per proteggerli dalle difficoltà e dalle angosce che la vita  ha  loro riservato.

E infine, per concludere, un altro motivo per cui questo libro mi è  particolarmente caro è perché nasce dal lavoro comune svolto nel Corso di perfezionamento bambini-adolescenti. Quasi tutti i casi sono stati seguiti in supervisione all’interno del Corso e tutti discussi nei seminari clinici. Questo ha fatto sì che, dietro al lavoro dei singoli analisti, c’è stato un lavoro di gruppo dei colleghi che hanno molto pensato intorno a questi casi e vissuto con grande intensità queste situazioni. Il lavoro del gruppo ha permesso in molte occasioni di superare la turbolenza emotiva a volte intollerabile e ha reso  possibile il dispiegarsi delle emozioni. Una condivisione e un legame profondo nel gruppo che costituisce il filo conduttore del libro,  non a caso, nato da questo lavoro; libro, che, pur nella differenza dei contributi, ha una profonda valenza comune.

 BIBLIOGRAFIA

 

Alvarez A.(1992),Il compagno vivo, Astrolabio, Roma 1993.

Cancrini T.  (2002) , Un tempo per il dolore, Boringhieri, Torino 2002.

Luxemburg R. (1976). Un po’ di compassione, Adelphi, Milano 2007.

Mancia  M., Sentire le parole. Torino, Bollati Boringhieri, 2004.

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