Discussione del lavoro di C. Beebe Tarantelli “Sarò fatto a pezzi”: verso la teoria bioniana del trauma catastrofico”.
Basilio Bonfiglio
Centro di Psicoanalisi Romano, 28 novembre 2014.
Devo ringraziare la dr.ssa Tarantelli per molti motivi, il primo dei quali è di avermi “costretto” a rileggere con molta più attenzione i volumi dell’autobiografia di Bion tradotti. Le sue puntuali e acute riflessioni hanno reso la lettura più fruttuosa facendomi riscoprire una parte della produzione di Bion che apre ampi orizzonti per la comprensione del suo pensiero. Sarò breve perché il complesso lavoro della dr.ssa possiede una completezza ed una coerenza che mi esime dalla necessità di soffermarmi punto per punto. Penso che lei sia riuscita a calarsi nelle vicende drammatiche, esposte da Bion in testi diversi e con linguaggi differenti, trovando la distanza necessaria per evidenziare snodi teorici significativi. Ha reso così evidente come il Bion che si occupa teoricamente di meccanismi psicotici sappia bene di cosa sta parlando, potendo attingere alla propria esperienza personale profonda; ai propri funzionamenti. La rilettura dei testi mi ha sorpreso per la franchezza, la ricchezza e la pregnanza dei ricordi, oltre che per il modo sovente allusivo e lieve di rendere partecipi a distanza di decenni, ad esempio, di suoi momenti dissociativi di distacco dalla realtà. Oltre a documentare l’insensatezza e la follia assolute delle dinamiche della guerra nella quale tutto sembra accadere nella più grande confusione ed imprevedibilità. Un elemento in più a sostegno della traumaticità di certi eventi e dell’impossibilità del singolo di digerirli, per come Carole con evidenza sostiene. L’autobiografia rende evidente come sia insito nelle situazioni traumatiche il bisogno, per chi le subisce, di tornare ininterrottamente a quelli che rimangono ‘fatti’ e possono non assumere mai lo statuto di ricordi, - suscettibili di essere ‘dimenticati’. Quella necessità impellente rappresentata con grande maestria nel personaggio Gennaro (“Napoli milionaria”) di Eduardo De Filippo che, rientrato dalla guerra, coglie ogni occasione per rievocare i momenti terrificanti vissuti:
“Che momenti … Che momenti … Figuratevi ca miezz’ a na campagna, annascunnute dint’un fuosso, perché attorno cadevano granate e cannunate … l’infierno apierto, on Errì … stettemo tre ghiuorne: senza mangià, e senza vèvere, sette persone con due cadaveri sfracellati dalle schegge …
Con la moglie che lo interrompe disturbata dall’impatto emotivo della narrazione:
“Aggie pacienza Gennarì … po’ ce ‘o ccunte cchiù tarde … Mo s’ha da mettere ‘a tavula …”
Carole, a sua volta, avendo nel suo background una profonda conoscenza del pensiero di Ferenczi, è consapevole di cosa afferma parlando di trauma inelaborabile. Anche se questo autore non è citato in bibliografia, l’ho immaginato molto presente nel sottofondo dei suoi pensieri. Ho apprezzato nello scritto la acutezza e precisione nel ricavare dai racconti della guerra i segni distintivi che caratterizzano il trauma catastrofico, ma anche nel rintracciare e descrivere nei singoli episodi la messa in funzione dei meccanismi intrapsichici operanti in quei contesti e che verranno illustrati da Bion negli scritti sul pensiero psicotico. Carole rintraccia anche gli effetti di tali eventi ad esempio quando osserva “ Smith è diventato un oggetto bizzarro” (4), a proposito di un compagno che Bion vede morire davanti a lui e del cui corpo non sa come liberarsi. In questo modo, affermazioni di Bion sintetiche ed espresse con un linguaggio teorico asettico negli scritti risultano più incisive ed assumono spessore e consistenza. Prendono corpo i tentativi di cancellare la coscienza per liberarsi dei sentimenti, la rottura della barriera di contatto, gli stati di disintegrazione, la rottura e l’evacuazione del legame, gli stati di dissociazione e spersonalizzazione, la perdita di contatto con la realtà, lo stabilirsi di stati di vuoto con perdita delle coordinate temporali, la formazione di esoscheletro, ecc. Non mi dilungo perché risultano evidenti nello scritto e non potrei aggiungere altro a ciò che la dr.ssa ha già espresso. Preciso però, tornando ancora a Ferenczi, che concordo con lei nel considerare tali manovre meccanismi di sopravvivenza con i loro vantaggi e svantaggi per l’individuo. Certi stati di impotenza assoluta e di resa svolgano quella funzione attribuita, - ricorro ad altro linguaggio e riferimenti, - ai meccanismi parasimpatici di riduzione al minimo dei parametri vitali quando è persa la speranza, che prendono il posto di quelli simpatici, adrenergici, dell’attacco e fuga.
Mi sono chiesto, a questo punto, quale potesse essere il mio compito questa sera. Ho quindi pensato utile al dibattito contribuire da un vertice che mi è più familiare, realizzando un controcanto con un’altra intonazione che però, come dirò più avanti, giunge a conclusioni analoghe.
Ho intrapreso perciò quel percorso che lei – argomentandone le ragioni - ha escluso decidendo di parlare “del narratore di queste opere immaginative, della rappresentazione in queste narrazioni di colui che visse quelle esperienze o dell’autore dei suoi lavori teorici” (2). E, più avanti, (10) chiarendo ulteriormente: “ il Bion storico non è conoscibile, [mentre] gli insight del teorico rispetto al funzionamento della mente psicotica (o traumatizzata) possono illuminare le reazioni alla guerra del personaggio Bion”.
Ripercorrerò, quindi, le stesse vicende ma introducendo quell’ambiente che Bion (come lei ci ricorda) aveva deciso di mettere tra parentesi, pur convinto che la psicosi prendesse origine dall’interazione tra ambiente e personalità. Introdurrò l’ambiente nella forma di ambiente primario, accanto a quello presentificato con le vicende della guerra. Mi riferirò in particolare ad alcune notazioni (e sono poche) riguardanti la madre e la relazione con lei. Mi accosto, cioè, al tema dei meccanismi psichici “che si formano a seguito di un trauma psichico” ( per come ci dice Carole) in un modo che mi è più congeniale, situando i ‘fatti’ in un contesto bipersonale. Uno dei primi racconti di Bion sulla sua infanzia (“The long WE) mi ha molto colpito ed ha soggiornato a lungo nella mia mente. Egli racconta: “Nostra madre, d’altra parte, era strana; quando mi tirava su e mi prendeva in collo, là dove c’era tepore, sicurezza e conforto, mi dava una curiosa sensazione. Quindi all’improvviso, ecco il freddo e la paura, come doveva succedermi anni dopo, alla fine della funzione religiosa, a scuola, quando le porte si aprivano e una fredda corrente di aria notturna sembrava sospirare dolcemente attraverso la cappella riscaldata dai sermoni. […] Allora scivolavo giù in fretta dal suo grembo, e andavo alla ricerca di mia sorella” (1982, 13) (mie sottolineature).
Egli descrive come vissuto ricorrente un’esperienza che fa da pendant ai due incontri successivi con la madre. Il primo in una breve licenza del periodo di addestramento militare ed il secondo in occasione della consegna a Buckingham Palace della Victoria Cross guadagnata in battaglia. Rievoca la prima come un’esperienza spaventosa di cui non ha conservato alcun ricordo, salvo il saluto: “Quando per me arrivò l’ora di tornare al campo, mia madre era inquieta. Mi carezzò la guancia; disse che era morbida. Mi infuriai e fui lì lì per dirle che non ero più un bambino […] quando mi accorsi che stava piangendo. Tenni la bocca chiusa, ma dentro di me ero inviperito” (Bion, 1982, 126-7). Anche del secondo ricorda poco, “a parte una cocente infelicità”. La madre gli racconta l’indovinello del fiore più odiato dall’avaro: l’anemone. Gioco di parole che sta per “any money”. “La mia risposta - scrive Bion - fu un silenzio di tomba, tanto ostile da spaventare anche me”. E prosegue: “Dopo un istante mi sentii sommergere da una tale pena per quella che ero certo fosse la sua totale disperazione” (204-5). Anche quest’incontro si conclude male: “La mattina seguente, quando vidi il volto bianco e incipriato di mia madre, riconobbi i segni della disperazione. Non parlammo; ciascuno si era ritirato nel suo guscio” (206).
Leggo tali episodi come indicativi di una modalità di relazione, quella tra Wilfred e una madre percepita come intrusiva e torturante, nella quale calore e accoglimento, celavano la richiesta di lei che egli facesse da contenitore della sua disperazione e della mancanza di risorse (“any money”), provocando in lui ritiro, distanziamento e rancore sordo. Ipotizzo, cioè, l’alternanza calore/ventata gelida come una costante della loro relazione.
Questa congettura ha stimolato la mia “immaginazione speculativa” interrogandomi sul come ciò avesse potuto influenzare il successivo interminabile trauma della guerra. Ed ha permesso anche di ripensare i meccanismi di difesa e di sopravvivenza, sui quali la dr.ssa si è soffermata, inseriti in un contesto relazionale. A questo riguardo avrei piacere che lei, che ha riflettuto così a fondo su questo argomento poco visitato da me, potesse dirci qualcosa di più, se lo ritiene.
Torno adesso al suo scritto per osservare come siamo giunti a conclusioni simili, partendo da percorsi differenti. Condivido, infatti, l’opinione che Bion rappresenti nell’autobiografia la carenza di quella caratteristica umana innata che consiste nella “ricerca automatica di un oggetto che può contenere l’identificazione proiettiva di colui che cerca , consentendo così lo strutturarsi della mente […]” (Tarantelli). L’esperienza bellica di Bion è un ritratto del tropismo negativo: una ricerca che non è riuscita di trovare l’oggetto capace di contenere il terrore mortale. Forse sono meno pessimista di lei, però, nella misura in cui leggo il saltare istintivo dal carro armato (e quindi dalla sicura morte) della stessa natura del suo scivolare dalle braccia della madre.
Ipotizzo, cioè, che la confusione notata da Carole in un gran numero di episodi riferiti da Bion (la dichiarazione che “non esisteva un luogo dove andare”, oppure “così avevamo la sensazione di andare da qualche parte”, ecc.), riproponesse l’assenza di un oggetto affettivamente vivo e contenitivo capace si funzionare da “Base sicura” (Bowlby, 1988). E penso che questo abbia prodotto quel nucleo duro, compatto dentro di lui con cui ha fatto i conti l’intera vita. L’ho ricavato da tutta la sua autobiografia, ma anche dall’episodio conclusivo di “A ricordo di tutti i miei peccati” (Bion, 1985, 70).
Un episodio drammatico, data la consapevolezza parziale di Bion del momento in cui l’ha vissuto e quella certamente più lucida e sofferente di quando a più di settanta anni di età l’ha rievocato: lo sgomento nell’essere spettatore di se stesso intravvedendo qualcosa di sé cui non si è in grado di porre rimedio. Mi riferisco alla richiesta della piccola Partenope di essere presa in braccio e l’impossibilità per lui di aderirvi. Siamo appena dopo la fine della seconda guerra mondiale e Bion ha circa 47-48 anni.
“Eppure ora mi sentivo come non mi ero mai sentito prima: ottuso e insensibile. Che ci fosse qualcosa che non andava, che ci dovesse essere qualcosa che non andava, mi apparve chiaro in un week-end mentre me ne stavo seduto sul prato di casa e la bambina camminava a quattro zampe vicino a un'aiola dalla parte opposta del prato. Cominciò a chiamarmi; voleva che andassi da lei.
Restai seduto.
Lei cominciò a strisciare verso di me. Ma mi chiamava come se volesse che andassi a prenderla in braccio.
Restai seduto.
Lei continuò a strisciare e a chiamarmi, ma ora con un tono di infelicità.
Restai seduto.
La osservai proseguire nel suo faticoso percorso attraverso la distesa sconfinata, o che tale doveva sembrarle, che la separava dal suo Papà.
Restai seduto, ma mi sentivo amareggiato, arrabbiato, rancoroso. Perché mi stava facendo questo? E, quasi impercettibile, la domanda, “Perché le stai facendo questo?”.
La balia non riuscì a resistere, e si alzò per prenderla in braccio. “No”, dissi io, “la lasci strisciare. Non può farle alcun male”. Guardammo la piccola che strisciava a fatica. Ora piangeva disperatamente, ma insisteva con caparbietà nel suo sforzo di coprire la distanza che la separava da me.
Mi sentivo come stretto in una morsa. No. Non mi sarei mosso. Alla fine la balia, dopo avermi guardato con incredulità, si alzò, ignorando la mia proibizione, e la prese in braccio. L'incantesimo si spezzò. Fui liberato. La bambina aveva smesso di piangere per essere consolata da braccia materne.
Ma io, io avevo perso mia figlia”.
Il divincolarsi da un abbraccio caldo che diventa gelido, si trasforma (e questo lo conosciamo bene) in incapacità a prendere in braccio. Immagino che su questo egli abbia lavorato per tutta la sua vita e ciò non sia estraneo alla scelta del titolo del volume. Aver impattato con la responsabilità, a quel punto sua, di avere aperto la porta alla “fredda corrente di aria notturna”. Io amo immaginare che tale consapevolezza sia una delle ragioni per le quali negli ultimi anni si è interrogato ripetutamente su quanto poco la psicoanalisi si fosse occupata di sviluppo e di crescita, piuttosto che di difese e di colpe, e che questo lo abbia condotto alla valorizzazione dell’incontro in “O” col paziente: essere capaci di sostenere e condividere l’unisono di un’emozione. Và in questa direzione la notazione di Grotstein ripresa da Carole: “quando avrei potuto sembrargli onnipotente’, [Bion] mi offriva un’interpretazione per cui ero stato ‘ridotto a diventare onnipotente’, giacchè mi sentivo impotente nella situazione che gli avevo illustrato” (10-11).
Mi piace pensare ci sia questo dietro il “tardo Bion” (Ogden, 2012, 145) o “l’ultimo Bion” (Vermote, 2011, 1081).
La questione che si pone, e non solo in quanto psicoanalisti, è come porre rimedio ai pesi di cui siamo gravati, in modo da trasmetterli alla generazione successiva attenuati perché parzialmente sperimentati. E contrariamente a quanto potrebbe apparire, queste pagine di Bion mi hanno infuso più forza e spinta vitale, nella perenne battaglia che è anche la vita
Ringrazio ancora Carole che mi ha accompagnato questa estate con la ricchezza del suo scritto. Studiarlo e meditarlo si è rivelato uno stimolo forte che ha ricomposto dentro di me sfaccettature di un Bion diverso, più intimo, umano e sofferente; capace di quell’elaborazione post-analitica cui siamo chiamati a confrontarci.
BIBLIOGRAFIA.
Bion W.R. (1982). La Lunga Attesa. Autobiografia 1897 – 1919, Astrolabio, Roma, 1986.
Bion W.R. (1985). A Ricordo di tutti i miei peccati. Seconda parte dell’Autobiografia. Astrolabio, Roma, 2001.
Bowlby J. (1988). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1989.
De Filippo E. (1945). Napoli milionaria. Giulio Einaudi Editore, Torino, 1971.
Ogden T. (2012). Il leggere creativo. Saggi su fondamentali lavori analitici . CIS Editore, Milano. 2012.
Vermote R. (2011). On the value of ‘Late Bion’ to Analytic Theory and Practice. Int. J. Psycho-Anal., 92, 1089-1098.