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Boccara P. - La mente e il condominio. Esperienze psicoanalitiche di polifonia degli Stati del Sé (2015)

                                                                 ”... ci vogliono due persone per pensare (...) [ed] è questa esperienza

                                                                  di pensare con un’altra persona, con cui si è in conversazione consciamente

                                                                 e inconsciamente, che credo abbia le potenzialità di creare condizioni in cui

                                                               possa accadere il cambiamento psicologico sia nel paziente che nell’analista”

                                                                                                                                               (T.H. Ogden, 2013, 628, 635)

Da tempo sono sempre più convinto che sia molto importante cogliere in una qualsiasi esperienza psicoanalitica le dimensioni sconosciute di se stessi e poter ridefinire, ogni volta, la propria soggettività per come si ridetermina nel vivo di ciascuna relazione interpersonale. La psicoanalisi è sempre conoscenza e terapia insieme. Ed è attraverso la conoscenza della mente dell’altro tramite la propria, che il dispositivo terapeutico si attiva nell’emergenza di livelli inconsci del Sé precedentemente non rappresentati.

            Sappiamo, infatti, che il soggetto non può mai essere interamente separato dall’oggetto con cui entra in relazione, non può essere del tutto centrato su se stesso e verifichiamo di continuo come l’altro si sottrae spesso alla conoscenza diretta. Freud (1919) descrive l'individuo come luogo di un conflitto irriducibile con l'altro soggetto che, sentito dentro di sé come uno sconosciuto, provoca un’inquietante estraneità. Ma l’altro, il “perturbante”, è soprattutto ciò che noi siamo e non conosciamo, ciò che anche siamo a dispetto di quello che crediamo di conoscere su noi stessi.Ferenczi (1932), sostiene che il mancato riconoscimento dei bisogni, delle attese, dei ritmi del bambino da parte di adulti che se ne prendono cura, produce la scissione e l’isolamento delle parti del Sé non riconosciute, diffondendo la sensazione di essere inerme, insieme alla sfiducia nelle proprie capacità di ottenere riconoscimento. “Quando da bambini - scrive Bollas (1995) - capiamo qualcosa della stranezza di possedere una mente, una mente che ci porta anche a pensieri scomodi, emozioni sconcertanti e fantasie persecutorie, ci accorgiamo che si soffre ad avere una mente, che sempre viene conosciuta solo in parte e quindi sempre ci mette nei guai". Winnicott (1965) parla di “un’agonia impensabile” che provoca organizzazioni di difesa che servono a proteggersi, ma che portano alla paura di un crollo”. Un crollo” già accaduto ma che non è stato ancora sperimentato,e una “paura come sentimento di fondo del mondo interno di una persona che non ha raggiunto uno stato unitario, che non è diventata una persona a pieno titolo (Ogden, 2015).Come se “l’esperienza del sé che include tutti i sé passati e futuri e in cui i sé potenziali sono mescolati con i sé attualizzati” (Lichtenstein, 1965,126) facesse albergare in diversi pazienti “ una fantasia molto angosciante: quella appunto di un bambino che non ha diritto di esistenza” (Pallier, 1990,147) e che, per esempio, dopo l’avvio di un’analisi fa temere per lungo tempo di poter essere rifiutati anche dal proprio analista[1].

Potremmo quindi sostenere che ogni persona è sempre angosciata da un qualche proprio prodotto mentale, come se fosse la nostra stessa soggettività ad esporci in talune circostanze a profonde inquietudini. Il Sé della persona, inteso come “la storia delle molte relazioni interne” (Bollas, 1987, 17), si riferirebbe alle posizioni o ai punti di vista da cui e attraverso cui cogliamo, sentiamo, osserviamo e riflettiamo le esperienze separate e distinte del nostro essere e che deriva soprattutto da come gli altri ci percepiscono e dalle esperienze che permettono il dispiegarsi di progetti di soggettivazione.    

Penso quindi che nel nostro lavoro quotidiano possiamo trarre vantaggio da una concezione gruppale della nostra mente, che - come sostiene Anna Ferruta (2011) - “non è un nemico da combattere, con il rischio di vederlo rinascere continuamente in altre forme come un mostro che non accetta la propria estinzione, ma una risorsa da rispettare, coltivare, utilizzare “. Da qui la mia propensione a dare importanza alla relazione interna fra differenti suborganizzazioni del Sé: una relazione fondata proprio sull’appropriazione da parte del soggetto di funzioni e qualità del legame con l’oggetto.

Ed è proprio con questo modello che, nella prassi psicoanalitica quotidiana, possiamo valorizzare i meccanismi mentali legati alla pluralità dei personaggi che emergono dal mondo interno di ogni individuo e, contemporaneamente, consentirci una particolare attenzione all'emergere e allo sviluppo di elementi inconsci bloccati o mai entrati nella dinamica degli scambi relazionali.Elementi inconsci, questi, riferibili non tanto a quegli aspetti rimossi che nella vita sono accaduti e che sono stati provati,ma piuttosto ad aspetti dell’individuo (spesso fisici oltre che mentali) che registrano gli eventi che accadono e che non vengono sperimentati, come “l’esperienza traumatica non assimilata, i propri sogni non sognati”( Ogden,2015,14).

Ho provato allora a immaginare la nostra mente come un condominio. Un condominio costituito da tanti piani a cui corrispondono diversi appartamenti e diversi inquilini. Ogni inquilino di ciascun piano corrisponde ai diversi stati del nostro Sé: differenti modi individuali di esistenza. Ne frequentiamo di più alcuni, altri meno, ma ogni piano potrebbe essere visitato, prima o poi, e sperimentato nei suoi aspetti relazionali.

Ogni piano si può raggiungere attraverso l’ascensore, In alcune circostanze o per un periodo variabile, alcuni piani possono anche non essere più raggiungibili con l’ascensore e anzi si può raggiungere per lungo tempo solo alcuni piani e non altri. Come se per diverse congiunture separative fossero bloccati alcuni pulsanti. In altre occasioni, magari inaspettatamente, si attivano nuovi pulsanti che ci permettono di arrivare a piani di cui non conoscevamo l’esistenza, che possiamo andare a vedere, uscendone poi via o in cui rimaniamo invece piacevolmente. L’ascensore rende attivo un processo che potremmo assimilare al processo dissociativo che costituisce una caratteristica di quello che fa la nostra mente. La relazione tra i diversi piani e la funzione dell’ascensore è ciò che la mente é. Fino a che questo ‘ascensore’ è attivo possiamo passare da un piano all’altro: fermarci, entrare negli appartamenti, uscirne, visitarne altri. Se si blocca invece qualche pulsante, rimaniamo solo ad un piano o ne possiamo raggiungere solo alcuni e non altri. L’ascensore si limita nella sua funzione, così come si blocca il processo dissociativo, con la conseguenza che i diversi stati del Sé non sono più collegabili tra loro, anche se permane comunque l’illusione che tutto funzioni.

 

Insomma anche se l’esperienza di Sé, secondo questo punto di vista, può essere intesa in una forma multipla e discontinua, si può allo stesso tempo ipotizzare un rapporto dinamico fra parti del Sé, più o meno formate, integrate, diversamente modellate dalla storia del soggetto e attivate dalla diversità dei contesti e delle relazioni. Scrive Mitchell (1993,113): “la visione del Sé come multiplo e discontinuo è radicata in una metafora temporale piuttosto che spaziale: i Sé sarebbero ciò che le persone fanno e vivono nel corso del tempo, non qualcosa che esiste da qualche parte. Il Sé si riferirebbe allora all’organizzazione soggettiva di significati che la persona crea spostandosi nel tempo, “facendo cose”, “incontrando persone”, “provando idee” (comprese quelle autoriflessive), insieme ai sentimenti relativi a se stessi. Quindi per passare da uno stato del Sé all'altro, oltre che un ascensore, potremmo anche immaginare una specie di macchina del tempo che raggiunge i nostri diversi Sé costituitesi nel passato e che trovano nel presente un’altra possibilità di manifestarsi. E la nostra mente sarebbe assimilabile oltre che a un condominio a una specie di comunità di convivenza per tanti diversi Sé, tanti quanti si sono formati nel tempo attraverso l’incontro con i diversi ‘altri’ della nostra vita. E tale rapporto sarebbe condizionato dalle forze istintuali, dalle attività della fantasia, dai processi integrativi del Sé, dalla memoria (mediata dall’identificazione) dell’essere stato l’oggetto dei genitori nella relazione primaria.

È proprio secondo questa concezione che la dissociazione può essere considerata, all’origine, una funzione sana e adattativa della mente umana. Il processo dissociativo, l’ascensore, può essere inteso come un elemento di base che consente agli stati individuali del Sé di funzionare in modo ottimale (anche creativo e non semplicemente difensivo): per esempio quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno è un’immersione in una singola realtà, in un unico affetto forte con una sospensione della capacità autoriflessiva. Quando però questi stati del Sé sono vissuti come non-me e diventano discontinui rispetto alle altre modalità di definire il Sé e la realtà, si verificano dei problemi.

Nella stanza di analisi mi sono sempre di più accorto di essere esposto in seduta ad una gamma continuamente diversa di stati del Sé (miei e dell’altro)discreti e discontinuie, per tali motivi, la mia attività mentale tende spesso a considerare il presupposto traumatico del singolo paziente come ‘un residuo muto in attesa di un interprete’.Concordo con chi ritiene che lo scopo della psicoanalisi clinica non è più solo “disvelamento” ma “recupero e costruzione di quanto non ha potuto svilupparsi nel corso delle precedenti relazioni” (Robutti, 1992,17). E quindi penso di conseguenza che il paziente ha bisogno di venire a contatto con i suoi mostri per come essi si possono manifestare durante il suo percorso con l’analista. E proprio in quest’ottica, ciò che viene chiamato mostro può essere da me proposto come qualsiasi stato del Sé disconfermato, invalidato in modo traumatico, “in quanto portatore di problemi” agli occhi di un altro significativo.

Potremmo considerare allora ‘la molteplicità’ la nostra prima caratteristica e l’’unità’ la nostra seconda peculiarità. Perché in fondo occorre tener sempre presente che esiste in ognuno di noi un ineliminabile bisogno di unità, di autenticità, di stabilità e di continuità storica del Sé, le cui origini siano rintracciabili nell’incontro fra le potenzialità emergenti del Sé e dell’oggetto, e che tutto ciò può essere descritto nei termini di “un rapporto inconscio con se stessi come oggetto” (Bollas, 1989). Si tratterebbe allora di acquisire una visione del Sé come decentrato e un’idea della mente come “una configurazione di stati di consapevolezza mutevoli non lineari e discontinui”, in continua dialettica con la salutare illusione di un senso del Sé unitario. La capacità di un essere umano di tendere a vivere una vita autentica, dipenderebbe così dall’avvicinarsi ad una dialettica continua tra il senso di separatezza e di unità dei diversi Sé, che consentirebbe a ognuno di essi di funzionare il più possibile in maniera ottimale senza precludere la comunicazione e la negoziazione tra loro. Ogni stato del Sé, nonostante la presenza di ‘collisioni’ e ‘inimicizie’, potrebbe divenire parte di una totalità funzionale, fondata su un processo di negoziazione interna con le realtà, i valori, gli affetti e le prospettive degli altri stati del Sé.

            In queste occasioni, l’impressione è di trovarsi di fronte a quella “polifonia degli stati multipli del Sé” di cui parla Bromberg (2006, 57) e che una volta attivata rende possibile condividere l'immediatezza dell’esperienza del paziente. Forse è quello che Mitchell (1993) definiva “un cambiamento strutturale dalla dissociazione al conflitto” e che veniva rappresentato sul piano clinico proprio dall'aumentata capacità del paziente di adottare un atteggiamento autoriflessivo sugli altri aspetti del Sé prima dissociati. E mi sembra che tutto questo si differenzi da quello che la teoria classica del conflitto chiamerebbe “lo sviluppo di un Io osservante”, poiché l’obiettivo, in questi casi, è qualcosa di più di un pragmatico aumento di tolleranza del conflitto interno.

            Molte recenti esperienze cliniche mi hanno portato, infatti, a pensare che quando ogni stato del Sé acquisisce progressivamente una chiarezza e un significato personale, si va gradualmente ad alleviare il precedente senso di confusione rispetto a ‘chi si è realmente’ e a come si è arrivati, sul piano storico, ‘ad essere quella persona’. Come scrive Ogden (2015) a proposito della “agonia primitiva” di Winnicott,quell’esperienza originale non può essere collocata nel passato finché non si riesce “ad inserirla oggi nella propria esperienza presente”, e perché questo processo si realizzi “una delle motivazioni principali è rivendicare quelle parti perdute di se stesso per sentirsi infine completo”, includendo in sé il più possibile la propria vita non vissuta e non sperimentata. Perché in fondo, per il paziente (e per ognuno di noi), è in queste circostanze che si riesce a percepire un maggiore sentimento d’integrità e a riconoscere che, come afferma Pontalis (1990), “ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé, per avere qualche speranza di essere se stessi”.



1 Non tanto per una difficoltà a comunicare qualcosa di sé, ma soprattutto per il timore di rischiare di perdere gli aspetti più maturi e integrati della propria personalità, proprio nell’accostarsi a quell’area della mente, sede degli effetti di precoci vicende traumatiche, “dove però la rabbia è pur sempre fame divorante, avidità prorompente” (Pallier, 1990, 152).

 

Lavoro presentato il 12 dicembre 2015 in occasione dell'Incontro Intercentri ‘Esperienze Psicoanalitiche’ Verso una polifonia degli Stati del Sé.

 

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