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Nardi M. - Discussione del lavoro di A. Sugarman "Psicoanalisi infantile versus psicoanalisi degli adulti: due processi o uno?" (2017)

Serata intercentri (5 aprile 2017)

Intervento di Massimo Nardi

La foto della locandina che presenta questa serata, scattata nel 1927, rappresenta bene, nello sguardo di Freud rivolto alla figlia Anna e alla nipote Eva, l’interesse e la continuità che ha la psicoanalisi degli adulti con quella infantile. Proprio Anna, fu tra le sue fondatrici, ed essa procede dalla prima con le teorie di Freud sullo sviluppo psicologico dell’individuo. Eva, secondogenita di Oliver Freud[1], siede sulle gambe della zia mentre il nonno settantunenne la osserva amorevole e forse un po’ distaccato. Sempre nel 1924, erano nati, poco prima di lei, altri due nipoti, e altri ancora, tutti in un breve arco di tempo. Insomma, proprio negli anni in cui Anna Freud e Melanie Klein si affermano con rilevanti contributi sulla psicoanalisi infantile[2], casa Freud si popola di bambini. Forse c’è una correlazione tra i due eventi? I primi due nipotini, Ernst (quello del rocchetto[3]) ed Heinz, nacquero rispettivamente nel 1914 e nel 1918 da Sophie[4]. Nel 1921 nasce Anton Walter e Stefan Gabriel. Nel 1922 nasce Lucian (il famoso pittore). Nel 1924 Miriam Sophie, Clemens Raphael e ultima, la bimba della foto, Eva Mathilde. Otto nipoti in dieci anni, sei in soli quattro anni, dal 1921 al 1924. In questo quadriennio oltre alla vita che nasce e porta speranza in casa Freud arriva però anche la morte e la malattia. Nel 1920 muore, in seguito alla spagnola, Sophie, la figlia bella e vitale, a soli 27 anni, lasciando orfani proprio Ernst ed Heinz di sei e due anni, sui quali Anna Freud farà il suo primo apprendistato di analista infantile. Nel 1923 Freud subirà il suo primo intervento chirurgico al palato, un intervento male effettuato e pericoloso. Freud si era affidato a un chirurgo incapace, dal quale rimase vivo per miracolo, salvato casualmente da un altro paziente[5]. Due mesi più tardi muore Heinz, secondogenito di Sophie, che non si era mai ripreso del tutto dalla perdita della madre. Questo bambino aveva solo 5 anni e Freud lo aveva fatto ‘adottare’ nel frattempo dalla sua primogenita Mathilde che non aveva figli, perché ad Amburgo, dove il bambino viveva con il padre, molto depresso anche lui per la perdita della moglie, Heinz non riusciva ad avere cure né assistenza medica. Alla perdita di questo nipote Freud dichiarò che ‘non aveva mai amato nessuno e sicuramente mai nessun bambino come lui.’ Ancora cinque anni dopo, a proposito dello stesso lutto Freud disse di sentirsi ‘irrimediabilmente stanco della vita’[6]. Eppure nell’ ago della bilancia la vita e le nascite sembrano pesare più di ogni dolore, almeno a giudicare dalla creatività che mantiene Freud con i suoi scritti, anche in quegli anni di grande spessore. Forse vi riesce per effetto di alcune considerazioni che ancora una volta lo riguardano. Le riunisce in uno breve saggio dal titolo ‘Umorismo’[7]. In esso scrive: ‘l’umorismo non è rassegnato, anzi esprime un sentimento di sfida, e costituisce non solo il trionfo dell’Io ma anche quello del principio di piacere, che riesce in questo caso ad affermarsi a dispetto delle reali avversità’… ‘tutto questo senza uscire dal terreno della salute psichica’ (pg 505). Il piacere che l’individuo ricava dall’ umorismo sarebbe particolarmente liberatore e nobilitante. ‘L’umorismo vuol dire: -Guarda, così è il mondo che sembra tanto pericoloso. Un gioco infantile, buono appunto per scherzarci su-‘ e ancora ‘Se il Super-Io mira mediante l’umorismo a consolare l’Io e a difenderlo dalla sofferenza, così facendo non contraddice affatto la sua provenienza dall’istanza parentale’ (pg 508). Forse in virtù di una istanza parentale, accogliente, benevola, come lo erano stati i genitori del padre della psicoanalisi egli poté considerare in questo scritto il Super-Io in una luce più decisamente benigna?[8] Forse fu questo che gli consentì di dar maggiormente peso dentro di sé alle nascite dei vari nipoti più che alle angosce di morte derivanti dalla sua malattia, dai lutti della figlia e del piccolo Heinz, figlio di lei appena tre anni più tardi. Dunque la speranza della vita che portavano i primi nipoti con il loro arrivo, fa da sfondo al clima in cui nel frattempo cresce la nuova creatura della psicoanalisi, la psicoanalisi dell’infanzia. Dietro di essa Freud stava ingaggiando una scommessa sulle sue forze vitali, provava a riparare, risanare, in un periodo in cui la nuova vita arrivava e probabilmente grazie ad essa, perdite sentite in certi momenti come irreparabili. Combatteva il dolore, la destrudo, la ripetizione, ‘resistenze’ vissute e sulle quali ha continuato a sviluppare la sua riflessione nell’arco della sua vita. Le combatteva e ne teorizzava, non senza alcune ambiguità, la necessità di sconfiggerle. In molte occasioni della sua vita è certo che egli stesso vi riuscì. La nascita della psicoanalisi infantile incrocia e forse risente dell’elaborazione di certi percorsi esistenziali di Freud, il suo sguardo ne rappresenta la proiezione verso le generazioni future che se ne nutrono e di cui anche noi ne abbiamo l’eredità. La psicoanalisi infantile si sviluppa sostenuta, come Eva nella foto, dalle gambe di Anna e un po’ più lontano, come già detto, da quelle di M Klein, incoraggiata nel frattempo per le sue idee da Abraham e Ferenczi.

Il lavoro di Alan Sugarman ha tutto il merito di mostrare come sia possibile ‘sottolineando l’essenziale comunanza delle due tecniche (negli adulti e nei bambini) favorire lo sviluppo di una teoria globale della tecnica psicoanalitica’. Al centro dell’attenzione l’autore pone il ‘processo psicoanalitico’ costituito da due elementi strutturali: il transfert e la resistenza ‘che tendono a manifestarsi indipendentemente dalla scuola di pensiero dell’analista…’. Il processo psicoanalitico che si osserva con i bambini sarebbe simile a quello degli adulti se osservato, dice Sugarman, attraverso la moderna teoria del conflitto. L’autore illustra il concetto di insightfulness quale procedura che l’analista deve promuovere, una prospettiva cioè in cui ‘il piccolo conquista l’accesso non tanto al contenuto ripudiato quanto a un processo psicologico fondamentale che è stato deragliato da un conflitto interno’ ‘impara a mentalizzare e sviluppare la capacità di riflettere sulla propria mente, capendo come il proprio funzionamento influisce su comportamenti, paure, fantasie’ ‘ E tutto questo precisa, vale anche per le analisi con gli adulti. La sua tesi, riassumo ancora con l’autore, è: ‘che il processo psicoanalitico con i bambini al pari di quello con gli adulti, si basa sulla centralità dell’analisi della resistenza e del transfert, con l’obiettivo di favorire la capacità introspettiva rispetto al funzionamento della mente del paziente, in modo tale che avvengano cambiamenti strutturali’. Per conseguirli con i bambini si può dover passare per una tecnica diversa da quella degli adulti, là dove le azioni dell’analista possono essere riconsiderate ‘in termini di interpretazioni dell’azione che avvengono sullo stesso livello su cui comunica il bambino’. Tra le questioni che pone in gioco la lettura del lavoro di Sugarman una potrebbe essere riassunta nell’ interrogativo tecnico: quando e come interpretare una resistenza o quando contattare con il paziente la sua pena psichica. Sappiamo che Freud non ha cessato di considerare l’interpretazione della resistenza e del transfert come i caratteri specifici della sua tecnica[9]. La sua intera biografia, come nella parentesi da me descritta, restituisce l’immagine di un uomo che non si sottrae, non elude la pena psichica correlata agli eventi ma prova e riesce spesso ad attraversarla e, nella mia ipotesi, sta anche in ciò il suo contributo fertile alla nascita della psicoanalisi infantile. Talvolta come analisti però possiamo vivere il dubbio tra il praticare una interpretazione che abbia l’intento di liberare il paziente e noi stessi da un conflitto, anche quello di non riuscire in alcuni momenti a capire, o provare a sopportarlo affidandoci a una fiducia elaborativa, alla nostra capacità creativa e simbolica, che speriamo sopraggiungerà ma non è detto che accada. Spesso occorre transitare con il paziente per l’indifferenziazione di certi suoi stati mentali e la pena psichica che inducono, non riuscendo a ordinare dentro di noi quel che ci sta dicendo, il senso dei suoi giochi o disegni, quel che stiamo provando noi in quel determinato momento. Rimaniamo spesso in attesa che da una manifestazione caotica e dispersa dell’esperienza mentale si passi a un coagulo, una raffigurazione, forse una rappresentazione. Winnicott pone l’accento sul processo di sviluppo dall’indifferenziato alla differenziazione descrivendo lo spazio transizionale tra il me il non me, potremmo anche dire tra quel che è già rappresentabile in me e quel che lo dovrà-potrà diventare. Sugarman descrive della possibilità di lavorare con bambini che giungono in analisi con un grado elevato di integrazione mentale, in cui si operano trasformazioni per effetto delle interpretazioni dell’analista, ma là dove siamo in presenza di bambini più disorganizzati, occorre spostare l’attenzione sulla tecnica del gioco con cui si può ‘aiutare un bambino piccolo o meno integrato ad apprendere la complessità della sua mente articolando i pensieri e i sentimenti dei personaggi protagonisti del gioco, cosa che permetterà di parlare direttamente di questi fenomeni’. Ci disponiamo dunque ad aiutare un bambino a giocare e a sognare, talvolta a poterlo continuare a fare, promuovendo una creatività che diventi riparativa del proprio disagio, frutto del contatto con il proprio l’inconscio, modulando tecnica e tempestività dei nostri interventi. Winnicott diceva a M Khan: ‘Ho visto più di settemila bambini. Alcuni arrivano sognando e corrono a casa sempre sognando. Il compito clinico è allora quello di non disturbare il sogno, non quello di dare la tua interpretazione[10]’ (pg.64). Personalmente sono molto incline nel lavoro con bambini o adolescenti a tenere in gran conto i processi creativi in atto nei giochi, nei disegni, nelle loro fantasie reali e potenziali, in cui più che la parola spesso è la forza delle immagini ad attirare l’attenzione, a legare paziente e analista e da cui avviare trasformazioni. Sarei più propenso a mantenere, come cardine di ogni processo psicoanalitico di adulti e bambini, la comprensione del transfert per operare gli assetti tecnici più opportuni e destinerei all’interpretazione delle resistenze, non certo alla loro comprensione, un ruolo di minor rilievo, anche se è noto che per Freud, soprattutto nella prima parte della sua concettualizzazione, la resistenza si esprime massimamente proprio nel transfert. Sappiamo inoltre che parlare di transfert ripropone l’interrogativo se e quale statuto dare al controtransfert nel processo psicoanalitico. Esso reca sempre con sé il rischio di considerarlo contro il transfert, semplice e inevitabile reazione a esso, una concezione che ci fa scivolare in una posizione pericolosamente simmetrica con il paziente, soccombendo con lui nei suoi stati indifferenziati di funzionamento, gli stessi da cui necessità emanciparsi. Il transfert va considerato nelle sue possibili molteplici declinazioni, non solo, come ci suggerisce ancora Sugarman, come spostamento e proiezione sull’analista di legami oggettuali passati, ma anche come transfert della struttura psichica (Sugarman 2003, 2005), come interpersonalizzazione della struttura psichica (Silk, 2004), estensioni del classico concetto di transfert sulla scia di B. Joseph (1985) quando parla di situazione totale di transfert o di Schlesinger (2003) quando formula il concetto di transfert come processo. Personalmente sono molto interessato a queste concettualizzazioni e se il tempo ce lo concedesse chiederei a Sugarman di parlarcene più approfonditamente. Vorrei infine ringraziarlo per due motivi: il primo perché ci sollecita a non vivere l’equivoco di una dicotomia tra psicoanalisi degli adulti e dei bambini o adolescenti, pur nelle variazioni di tecnica che implicano, e il secondo perché tra le righe del suo lavoro ci regala una piccola perla di saggezza, conosciuta forse quanto trascurata, quando precisa che ‘nessuno di noi è saggio durante un’analisi tanto quanto possiamo sembrarlo a posteriori’. Ho provato a far tesoro di queste sue considerazioni nelle note che ho aggiunto alla sua esposizione. Grazie.



[1] Terzo figlio dei coniugi Freud-Barnays

[2] Anna Freud pubblica nel 1926 ‘Introduzione alla tecnica dell’analisi infantile’ e Melanie Klein lo stesso anno ‘I principi psicologici dell’analisi Infantile’, scritti con cui si avvierà una lunga e complessa dialettica non priva di controversie destinata a durare anni.

[3] S. Freud ‘Al di là del principio del piacere’ In OSF vol 9 ‘ed. Bollati Boringhieri.

[4] Sophie era la quinta figlia dei coniugi di Freud-Barnays, l’unica femmina da avere figli, nata prima di Anna, sesta e ultima figlia.

[5] Secondo la ricostruzione che ne fa dell’episodio Peter Gay in ‘Freud. Una vita per i nostri tempi’ Ed. Bompiani.

[6] In ‘Sigmund Freud. Intanto rimaniamo uniti. Lettere ai figli’ ed Archinto

[7] OSF vol 10 ‘L’Umorismo’ ed. bollati boringhieri

[8] Il trattamento clinico che illustra Sugarman nel suo lavoro è una descrizione accurata di come arrivi a mitigare le istanze superegoiche della sua piccola paziente. Il gioco, con la particolare distanza dalla realtà che consente, avvia spesso in questa direzione per il solo effetto della creazione di un setting che lo consenta.

[9] Laplanche e Pontalis ‘enciclopedia della psicoanalisi’ Ed. Laterza.

[10] In M. Khan ‘Trasgressioni’ Ed. Bollati Boringhieri.

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