
Nella serata scientifica intitolata “Umori, affetti, pensieri, essenze: tra conoscere e divenire”, organizzata dal Centro di Psicoanalisi Romano, abbiamo ascoltato una suggestiva presentazione clinica e teorica di Angelo Macchia.
La serata è stata introdotta da Daniela Cinelli ed il lavoro clinico commentato da Mauro Manica.
Daniela Cinelli ha introdotto l’argomento sottolineando che nel lavoro proposto si parla di un doppio incontro: dell’analista con i pazienti e con la lettura di Bion.
Si sofferma sull’aspetto personale e generoso del contributo di Macchia in cui ci rende partecipi del suo incontro in “O”, calato nell’esperienza sensoriale ed emotiva nella situazione analitica. Ci fa notare che nel caso clinico siamo introdotti in un mondo preverbale che viene ad organizzarsi intorno ai sensi. Possiamo condividere l’uso intuitivo che fa l’analista della propria sensorialità andando a cogliere aspetti iniziali non ancora nati nella paziente: una nuova esperienza che accade, attecchisce, resiste e diviene reale. Quanto descritto fa pensare al divenire come un processo naturale così come è descritto nel caso clinico.
Angelo Macchia nel suo lavoro mette in campo la propria esperienza di lettura personale e gruppale di Bion in dialogo con la propria pratica clinica. La domanda iniziale che si pone è la seguente: “Quanti Bion ci sono?”
Per orientarsi in questo quesito, ci fa entrare nel vivo della sua stanza di analisi e ci descrive il suo tentativo di muoversi tra due spinte: oscillare tra astrazione teorica e una dimensione particolare calata nell’esperienza emotiva della seduta.
Veniamo accompagnati nel cuore della relazione attraverso una sensazione somatica: “l’odore acre” che l’analista rileva e intuisce come significativo: ha a che vedere con la temperatura emotiva della seduta, con emozioni difficili da rappresentare, con parti di sé rifiutate, con una distanza messa in campo e può riguardare la qualità dell’esperienza primaria della paziente.
Macchia sente che paziente e analista stanno giocando una partita antica: il lì ed ora degli aspetti ripetitivi del transfert animano il qui ed ora incrociando le dimensioni evolutive.
Il cattivo odore diventa allora anche un sintomo del conflitto tra distanza e desiderio di intimità che coinvolge la relazione analitica: separa alimentando una distanza protettiva rispetto all’essere avvicinati, ma permane nella stanza di analisi come bisogno di essere tenuti, visti accolti ed in questo senso anche come una spinta potenzialmente vitale.
L’odore è considerato come elemento beta che viene proposto su un piano somatico e che necessita di una trasformazione. Il dispositivo analitico ha, quindi, la funzione di un sistema di trasformazione mediante il quale i processi somatopsichici acquisiscono le condizioni della rappresentabilità e possono tradursi in pensieri e significati.
La metafora utilizzata da Macchia è quella dell’analista come levatrice della mente: come il neonato ha bisogno della funzione materna per trasformare le impressioni sensoriali e le esperienze emotive in immagini visive usate per la formazione di pensieri, così l’analista fornisce all’analizzando la funzione alfa di cui inizialmente non è dotato.
La funzione alfa digerisce gli elementi sensoriali grezzi e le proto-emozioni di provenienza interna e li trasforma in qualcosa che può essere tollerato e pensato, ma come avviene nel processo di digestione così anche il processo di pensiero produce degli scarti: residui impensabili definibili come elementi beta. Il processo è continuo e circolare e gli elementi beta sono alla ricerca di una trasformazione che li renda fruibili nel processo che produce il pensiero.
Se la rêverie materna è insufficiente e il processo di trasformazione non funziona al posto degli elementi alfa si creano gli elementi beta, non digeribili, che non possono diventare inconsci ed essere rimossi, come accade nella descrizione clinica con l’odore acre della paziente.
La riproposizione di elementi beta all’interno della relazione analitica, mediante la dimensione comunicativa dell’identificazione proiettiva, costituisce un’opportunità per la loro trasformazione in elementi impiegati per sognare e finalmente passibili di entrare nell’inconscio.
Così come descritto nel processo analitico, l’odore è considerato un elemento beta orfano di una rêverie materna, alla ricerca di una dimensione psichica che lo possa adottare e rendere utilizzabile per l’esperienza. Attraverso l’utilizzo della propria rêverie l’analista descrive un contatto finalmente possibile con qualcosa di reietto della paziente che acquisisce il diritto ad esistere: l’elemento beta di natura somatica, l’odore, ha incontrato una controparte di natura psichica grazie alla funzione alfa dell’analista.
Da quanto descritto, sottolinea Macchia, si evince l’impianto radicalmente relazionale della metapsicologia bioniana, che supera la topica freudiana a favore della centralità delle funzioni di trasformazione. Questo elemento è di discontinuità con la concezione dell’inconscio freudiano perché in Bion perde il carattere di una struttura precostituita per assumere quello di modo di funzionamento psichico in divenire.
Siamo qui nel campo della dimensione epistemologica della psicoanalisi in cui la trasformazione dei processi somatopsichici equivale a conoscere, dare significato e pensare.
Macchia ci ricorda che la pubblicazione di Trasformazioni (1965) segna uno spartiacque nel pensiero di Bion: l’autore qui introduce la descrizione dei “fatti in sé”, indicati con il segno “O” che rappresentano l’esperienza che accade in seduta in un dato momento, che è intuita e che non può essere concettualizzata.
Ogden ha enfatizzato questo salto quantico nell’evoluzione della teoria: il passaggio tra il primo Bion e il secondo Bion trova riscontro nella distinzione tra una psicoanalisi epistemologica fondata sul crescere del conoscere e una psicoanalisi ontologica fondata sulla crescita del divenire nell’esperienza.
Tutto ruota intorno alla differenza tra (TK) e (TO), tra conosce e divenire. La differenza tra trasformazione in “K” e trasformazione in “O” è che la prima rappresenta un pensiero per ciò che non è ancora stato pensato e la seconda è una nuova esperienza che accade.
Sul piano della tecnica le conseguenze sono importanti: per la conoscenza (TK) è necessario un atteggiamento di tolleranza verso frustrazione e insicurezza, che rende l’analista più aperto possibile alla rêverie. Per il divenire (TO) è necessario rinunciare alla dimensione della sensorialità, tollerare il dubbio e l’ignoto, permettere a ciò che non è avvenuto di avere luogo.
Nel caso clinico, questo punto viene ben descritto nel momento in cui analista e paziente scoprono che sta accadendo qualcosa di diverso in seduta. L’inatteso è emerso e l’analista ha favorito questa esperienza vitale opacizzando la propria capacità di comprensione e lasciandosi permeare dal profumo di un’atmosfera nuova nel campo analitico, ma allo stesso tempo per lui “antica” in quanto in risonanza con aspetti profondi della propria vita emotiva.
Le trasformazioni (TK e TO) non sono in contrapposizione, ma in interazione dinamica così come è emerso nel resoconto clinico e come confermano alcuni studi delle neuroscienze.
Con i pazienti di oggi, commenta Macchia, la dimensione ontologica affianca quella epistemologica e frequentemente nell’analisi non si tratta di svelare l’inconscio, piuttosto di costruire le strutture psichiche attraverso l’esperienza di contenitori nuovi e più flessibili per creare inconscio. È l’esperienza di essere insieme in seduta che implica che l’analisi sia un progetto molto più coinvolgente e intimo di quello basato sullo scambio di conoscenze e insight.
Mauro Manica riprende la domanda iniziale: “Quanti Bion ci sono?”, la cui risposta è che ci sono infiniti Bion, come infinite possono essere le declinazioni del suo pensiero nella pratica clinica. Viene sottolineato come “O” non sia un concetto mistico, ma psicoanalitico. Nella Società Psicoanalitica c’è stato molto fraintendimento su questo punto, probabilmente suscitato dal fatto che Bion è alla ricerca di qualcosa che non si può conoscere ma che può soltanto diventare. Così come è descritto nel caso clinico, è necessario rinunciare alla dimensione sensoriale, tollerare il dubbio, il mistero, compiere un atto di fede ed aprirsi all’ignoto affinché avvengano trasformazioni in “O”.
Manica sottolinea che il pensiero di Bion ha permesso di fare un’importante revisione del concetto di Identificazione Proiettiva e che questa ha fornito la matrice creativa per il lavoro clinico di questa serata. Grazie a Bion l’Identificazione Proiettiva è diventata anche una modalità primaria e preverbale di comunicazione, che perdura l’intera vita come tessitura di fondo di ogni campo relazionale.
Con efficacia Manica ci fa notare che il caso clinico è presentato in due atti: conoscere la paziente e diventare la paziente, un primo atto in “K” e un secondo in “O”. Le variazioni della teoria e della tecnica sono evidenti transitando da una psicoanalisi epistemologica ad una ontologica, dai contenuti ai contenitori, dalle interpretazioni ad alle trasformazioni.
Viene messo in evidenza come nel materiale clinico sia ben descritto l’intercettare la sofferenza impensabile della paziente: un odore difficilmente tollerabile che invade la stanza e ammala il campo della relazione analitica. Qualcosa che si è potuto solo espellere perché non è stato trasformato dall’incontro con le funzioni dell’inconscio materno a livello delle cure primarie. Odore di assenza, solitudine, mancati riconoscimenti e disperazione.
Manica, insieme a Macchia, ci dice che la mente dell’analista deve diventare levatrice delle parti non nate della paziente e deve fornire quella funzione alfa che non ha supportato le capacità di rêverie materna.
Ma come avviene questo trasferimento magico di funzioni? Come si trasforma un odore repellente in un oggetto che restituisce profumo alla vita? L’analista, ricorda Manica, deve farsi corpo e vivere propri tormenti insieme al paziente solo così si può favorire l’esperienza del divenire in “O”. La psicoanalisi non è solo scienza, ma anche poesia e nelle conclusioni ci ha ricordato un emozionante passaggio del Seminario di Parigi in cui Bion, pochi mesi prima che venisse a mancare, esorta gli analisti a pensare alla psicoanalisi come ad un’arte, alla propria stanza d’analisi come al proprio atelier e a sé stessi come a degli artisti alla ricerca di una propria strada per esprimere con creatività tutto ciò che può prendere forma nel lavoro con i pazienti.
Nel dibattito ci siamo chiesti come ci possa essere un’espansione dell’esperienza del sentire attraverso il rapporto emozionale con l’altro. Questa può avvenire nella comunicazione sintonizzata e regolata da due soggettività, come tra infante e caregiver, oppure tra due persone in cui uno riflette l’altro e ciò che non è afferrabile attraverso il pensiero emerge a livello della sensorialità. In questo caso se l’accadimento avviene in una persona che è in comunicazione con un’altra avviene in entrambe.
Vedi anche
Umori, affetti, pensieri, essenze: tra conoscere e divenire (11 aprile 2024)