
“Perché le parole sono azioni e fanno accadere le cose”
(L. Wittgenstein in “Ricerche Filosofiche”)
Nella teoresi freudiana e nel pensiero psicoanalitico ispirato alla metapsicologia classica, la comparsa della dimensione dell’azione all’interno della situazione analitica, nella quale “Non si procede a nient’altro che a uno scambio di parole tra l’analizzato e il medico” (Freud 1915), è ritenuta una stortura, una deformazione o una deviazione del processo (Green 1993). In particolar modo, se l’agire interessa l’analista, chiamato al mantenimento rigoroso della neutralità, dell’anonimato e dell’astinenza, può costituire un errore tecnico o l’espressione di un insoddisfacente controllo del controtransfert. Gli acting out del paziente, invece, vengono considerati delle manifestazioni della sua psicopatologia o delle resistenze inconsce al trattamento analitico. Alcuni autori hanno suggerito che le azioni, sia del paziente che dell’analista, sarebbero prive di significato psichico e rappresenterebbero unicamente una scarica di energia che supera le capacità di elaborazione dello psichismo, perché sfugge il lavoro di rappresentazione (Green 1997) o perché non sufficientemente contenuta dall’analista (Steiner 2006). Tuttavia, l’introduzione da parte di Freud del concetto di Agieren (1914), inteso come memoria in azione, e il concetto di playing ad esso riferito formulato da Winnicott (1968), sembrano rappresentare delle anticipazioni dell’attuale nozione di enactment e le premesse teorico-cliniche per poter pensare nuove forme di ascolto nella situazione psicoanalitica (Sapisochin 2021).
Il fenomeno clinico dell’enactment e le dimensioni della parola e dell’azione nella situazione psicoanalitica sono stati i temi del seminario tenutosi presso il Centro di Psicoanalisi Romano il 22 marzo u.s., dal titolo “Il Dialogo Analitico tra Linguaggio e Azione”, in cui sono intervenuti in veste di relatori gli psicoanalisti membri ordinari SPI/IPA Giovanni Meterangelis (“Stati non rappresentati della mente ed Enactment Evolutivo”) e Fulvio Mazzacane (“Personaggi ribelli sulla scena analitica: l’Enactment nella Bion Field Theory”), e il filosofo e docente universitario Felice Cimatti (“Il nome fra descrizione e prescrizione”). La mattinata scientifica è stata introdotta e moderata da David Ventura, segretario scientifico del CdPR.
Nelle loro relazioni, Meterangelis e Mazzacane hanno ricostruito e ripercorso la storia, le vicissitudini e l’evoluzione del concetto di enactment. In “Controtransfert e risonanza di ruolo”, Sandler (1976) asseriva che “esiste un agire che può essere utilizzato per la comprensione delle dinamiche Transfert/Controtransfert” e che in ogni momento del processo analitico il paziente assume su di sé un ruolo e ne proietta uno complementare sull’analista, attraverso un complesso sistema di comunicazioni inconsce che, diversamente dal Controtransfert, non prevede solo sentimenti, ma anche atteggiamenti e comportamenti. La prima comparsa del termine enactment nella letteratura psicoanalitica risale a un lavoro di Jacobs del 1986, “On countertransference enactments”, nel quale l’autore lo descrive come un atto interpersonale a presentazione inaspettata, correlato al controtransfert ed espressione di un inconscio evitamento del conflitto nella coppia analitica, la cui manifestazione configura un ostacolo al progredire del processo analitico. Successivamente, gli enactment sono stati oggetto di un panel dell’APA a S. Francisco nel 1989, in cui si è assistito a una ridiscussione di quei fenomeni clinici, considerati fino ad allora degli acting out, in chiave intersoggettiva, cioè come espressione di un evento relazionale alla cui presentazione contribuiscono sia l’analista che il paziente. Se riconosciuto, compreso e analizzato, l’enactment poteva favorire l’evoluzione del processo analitico e l’emersione di aspetti del funzionamento mentale altrimenti non esprimibili e conoscibili.
Considerato originariamente come un accadimento relazionale episodico, discreto e circoscritto nel tempo, nelle formulazioni più recenti l’enactment, definito come “un episodio relazionale, a reciproca induzione, che si evidenzia attraverso il comportamento” (Filippini, Ponsi 1993), viene ritenuto un fenomeno clinico ubiquitario, onnipresente, che intesse l’intera relazione analitica e che attiene alla dimensione temporale dell’hic et nunc della seduta; a tal proposito, Mitchell (1988, 138) sostiene che ”è nel presente che si ritrova il passato, con il suo bagaglio di esperienze, in forme sfaccettate e molteplici”.
Meterangelis, citando Green (1983), sostiene che nel pensiero psicoanalitico contemporaneo si è osservato il delinearsi di una terza topica, ulteriore alle due teorizzate da Freud, che “corre tra i poli teorici del Sé e dell’Oggetto”. In questa prospettiva, la costruzione del Sé avviene in virtù di spinte motivazionali proprie il cui sviluppo richiede delle buone relazioni oggettuali con i caregiver. La funzione poietica svolta dagli affetti nella costituzione del Sé e nella relazione analitica è stata evidenziata e convalidata dagli studi di Infant Research (Stern 1985) e ulteriormente avvalorata dalle ricerche sulla memoria ad opera delle neuroscienze: la scoperta di una memoria implicita, procedurale, ha consentito l’estensione, l’ampliamento del concetto di inconscio e l’elaborazione del costrutto di inconscio non rimosso, nel quale vengono conservate le esperienze affettive presimboliche e preverbali delle relazioni primarie madre-bambino (Mancia 2007). Il riconoscimento di un funzionamento mentale inconscio più precoce, non verbale, non rimosso, di carattere gestuale-procedurale (Sapisochin 2013), iscritto nel corpo in forma di percezioni propriocettive viscerali e muscolari, ha consentito di considerare un altro tipo di difese, automatiche e innate, che tendono a manifestarsi attraverso l’azione, come evidenziato da Ginot (2017).
L’esistenza di precoci traumatismi nelle relazioni con gli accudenti può condurre a un’insufficiente costruzione di rappresentazioni del Sé e dell’Altro, che determinano la costituzione, nella struttura psichica, di stati non rappresentati o non simbolizzati della mente, che non possono essere ricordati, né espressi attraverso il linguaggio. Piuttosto, l’esperienza non simbolizzata viene registrata sottoforma di una traccia mnestica corporea che può trovare espressione solo attraverso la scarica somatica, nella dimensione dell’azione, rendendo, dunque, gli enactment gli strumenti tecnici fondamentali per accedere a tali stati mentali privi di rappresentazioni. Sebbene gli enactment siano presenti in tutti i rapporti umani, è nella relazione analitica, in seno alla quale analista e analizzando si influenzano reciprocamente, che essi possono incontrare la possibilità di essere colti, compresi e significati; Bromberg (2007) ritiene che gli enactment siano prodotti dalla collusione di configurazioni dissociate e reciprocamente proiettate che attengono alla soggettività dell’analista e del paziente, conferendo a questi eventi relazionali un significato perlopiù difensivo, in quanto la proiezione di aspetti “non-me” sull’altro consentirebbe la preservazione di un senso di continuità del Sé. Diversamente da questo autore, che riconosce come motivazione centrale della mente quella di conservare difensivamente la sua integrità, altri psicoanalisti quali Balint, Loewald, Kohut e Stolorow, hanno postulato la presenza di spinte inconsce motivazionali orientate al futuro, proattive e adattive. Tali sistemi motivazionali inconsci, che si sviluppano attraverso valide esperienze affettive nella matrice relazionale precoce, contribuiscono alle prime strutturazioni delle rappresentazioni del Sé e della relazione Sé-Altro del bambino, che permangono per l’interezza dell’esistenza. In quest’ottica, il trattamento analitico viene inteso come finalizzato alla ripresa di un processo evolutivo, tramite la riattivazione delle precoci strutture motivazionali e la costruzione di nuove configurazioni relazionali. Accanto al timore inconscio di ripetere e rivivere nel transfert situazioni traumatiche relazionali del passato, nell’incontro analitico il paziente è portatore anche di un’inconscia attesa di fare esperienza con un oggetto nuovo, mosso da una “speranza transferale” che le cose possano accadere in un modo diverso da come sono avvenute. Affinché questo si realizzi, Meterangelis sostiene che l’analista deve poter accedere e attingere alla sua capacità empatica “evolutiva” (Emde 1992), che consenta la co-creazione di uno stato fusionale tra i suoi stati del Sé e quelli del paziente (definito dalla Benjamin “Terzo Ritmico”) che faccia sperimentare un senso di unicità, seguito da uno di differenziazione, entrambi necessari alla ripresa dello sviluppo vitale del paziente. Nella sua opinione, gli enactment evolutivi, dunque, esprimono l’intenso bisogno del paziente di esperienze di fusione e differenziazione e costituiscono il suo tentativo di portare il futuro nel presente e di scorgere potenzialità e speranze nascoste o mai riconosciute, il “non-me del desiderio e dell’espansione”, per dirlo con la Benjamin.
Muovendo dal testo teatrale pirandelliano “Sei personaggi in cerca d’autore”, Mazzacane presenta in modo suggestivo la sua concezione di enactment come funzione analitica nuova che consente la messa in scena di aspetti del sé del paziente (i personaggi) che non hanno ancora trovato il modo di essere narrati nella situazione analitica. La sua visione sembra riflettere quella di Sapisochin, secondo la quale la coppia analitica è coinvolta in un’inconscia drammatizzazione di un copione del mondo interno dell’analizzando. Il relatore si interroga sulla legittimità dell’utilizzo del concetto di enactment nella cornice teorico-clinica della Bionian Field Theory (BFT), che porrebbe la necessità di formulare quesiti inerenti al rapporto tra parola e azione, al verificarsi degli enactment come accidenti relazionali da evitare o come possibilità di crescita della coppia analitica, agli esiti dell’inclusione e dell’integrazione in un modello teorico di concezioni afferenti da altre scuole di pensiero.
Nella BFT il campo analitico viene pensato come il susseguirsi di assetti intersoggettivi cangianti, instabili, turbolenti, che possono generare trasformazioni; le trasformazioni più rilevanti si realizzano allorquando il contatto tra la mente dell’analista e quella del paziente è profondo e nella costituzione progressiva di un terzo che si produce dall’interazione delle due menti partecipanti al processo psicoanalitico. Si tratta di situazioni di unisono o di malattia del campo. Nella prospettiva della BFT i momenti di crisi, dunque, talvolta esprimono la necessità di espansione e di flessibilità del rapporto contenitore/contenuto e di approfondimento dell’intimità e della fiducia nella coppia analitica. Secondo Mazzacane, la capacità della mente dell’analista di ricorrere alla servetta Fantasia pirandelliana, di assumere un assetto che si sintonizzi sull’onirico e di sognare la seduta mentre avviene, consentono la co-costruzione di una struttura narrativa originale come prodotto della coppia. La comparsa della dimensione dell’azione sulla scena analitica rappresenterebbe, riprendendo Etchegoyen (1988) “un sogno che non può essere sognato” e “un tentativo di regolare un eccesso di tensione”; ciò implica una concezione del verificarsi dell’azione come fallimento della funzione simbolizzante dell’analista, che può avvertirla consapevolmente come una deriva rispetto al suo modello di riferimento ideale e una discontinuità che provoca una rottura nel campo.
Anticipando alcuni temi che saranno trattati nel successivo intervento di Cimatti, Mazzacane accenna al problema della liceità della contrapposizione tra parola e azione, tra semantica e semiotica della comunicazione, facendo riferimento ad alcuni concetti della filosofia di Wittgenstein e allo studio della componente pragmatica del linguaggio, che definisce gli attori coinvolti nel processo comunicativo come dotati di un’identità plurima legata ai ruoli di volta in volta attualizzati.
Illustra, a seguire, la sua riflessione sull’estensione del concetto di enactment e sull’attribuzione di significati comuni da parte di diverse scuole di pensiero, che se da un lato consentirebbe la costruzione di un terreno teorico condiviso, dall’altro potrebbe condurre al rischio di perdere la necessaria differenziazione tra i diversi modelli, generando confusione, ambiguità e alterazione e svuotamento di significato dei concetti in oggetto. A tal proposito cita il lavoro di Bohleber et al. all’interno dell’IPA Project Committee on Conceptual Integration del 2013, che si concludeva con l’affermazione che i problemi centrali posti dal concetto di enactment consistessero nella coerenza interna e nella parsimonia.
Dopo la presentazione di un interessante caso clinico, Mazzacane conclude esprimendo le caratteristiche con le quali il concetto di enactment dovrebbe essere descritto per essere inserito all’interno del modello della BFT: rappresentare un fenomeno che si ingenera dall’incontro di componenti inconsce, recante un potenziale trasformativo, inevitabile, mutualmente prodotto. L’analista dovrebbe possedere una memoria immunitaria data dall’esperienza tale da consentirgli di assorbire le Identificazioni Proiettive in una forma attenuata e di sopravvivere alle turbolenze del campo in attesa dello sviluppo di una adeguata risposta anticorpale alle vicissitudini relazionali nella coppia analitica. Per il relatore l’enactment, al pari dell’unisono, costituirebbe un momento di intimità massima tra le menti in gioco nell’incontro analitico; dubita, dunque, di poter utilizzare il concetto in maniera concordante con quegli autori che lo considerano un fenomeno sempre presente, a meno che non si riformuli la situazione analitica come “normalmente turbolenta”.
L’ultimo intervento della mattinata è affidato a Felice Cimatti, che esordisce affermando che il linguaggio che non è azione non è linguaggio. Introduce la nozione di performativo, concepita dal filosofo John Langshaw Austin, che in “Come fare cose con le parole”, sostiene che non sussiste alcuna contrapposizione tra dire e fare, che essi coincidono. Utilizza l’esempio del battesimo come gesto linguistico, come un enunciato performativo il cui proferimento costituisce l’esecuzione di un’azione: nominare il bambino lo costituisce in quanto oggetto, determina l’essere pensato come oggetto che fa parte del mondo in quanto viene nominato. Il linguaggio può, dunque, essere concepito come la presupposizione, l’aspettativa che esista qualcosa da nominare, come una macchina che produce gli oggetti nominati; esso non descrive il mondo, ma prescrive ad esso come presentarsi, lo costruisce. Si esplicita in questo modo quella che Cimatti definisce nella sua opera “∃x(fx) Logica della decisione” <<l’intrinseca potenza istituente della parola>>, in virtù della quale la parola umana istituisce l’esistenza di ciò di cui si parla. In virtù del suo carattere performativo, prescrittivo, nella ‘sua’ decisione di dire il mondo in un certo modo anziché un altro, nel dispositivo linguistico è insita la violenza: ogni descrizione è una prescrizione, una coercizione a dover essere, un’ingiunzione. Nella trattazione dell’autore, la violenza del linguaggio non è quella contenuta in alcune particolari espressioni (ad esempio il cosiddetto hate speech), non è il contenuto verbale che definisce la violenza di un gesto linguistico, ma la natura stessa del linguaggio implica un elemento innato di violenza.
Per illustrare la sua concezione dei processi di antropogenesi e psicogenesi, Cimatti prende in esame il caso clinico di Piggle, documentato da Winnicott in “Piggle: una bambina”. La piccola paziente, in concomitanza con la nascita della sorella minore, presentava sogni angosciosi in cui comparivano figure nere e una bambola di porcellana, che la madre aveva descritto come “incubi” durante la consultazione con Winnicott; a parere di Cimatti, già nella definizione che la madre ha attribuito all’attività onirica della bambina, si esprime la funzione prescrittiva del linguaggio. Dopo la lettura di un passo in cui Winnicott descrive la situazione analitica (in cui era seduto a terra, i giocattoli erano disposti sul pavimento) e le interpretazioni suscitate dall’osservazione del gioco della bambina, finalizzate all’emersione dei suoi sentimenti verso la sorellina, Cimatti commenta che l’analista non ha descritto, ma ha prescritto a Piggle, attraverso l’interpretazione, come pensare quello che stava accadendo. Riprende il concetto di violenza dell’interpretazione della Aulagnier e la funzione di portaparola dell’adulto; tuttavia, ritiene che il gesto linguistico di Winnicott sia stato “felice”, poiché ha istituito dei contenuti psichici attraverso l’interpretazione, attraverso la relazione con lui la mente di Piggle viene al mondo. Attraverso le sue operazioni, egli ha costruito il suo mondo psichico. Nell’opinione del relatore, la formazione dell’identità e il processo di soggettivazione sono messi “in movimento dall’urto del linguaggio con il corpo dell’animale umano”.
Il seminario ha suscitato un intenso dibattito in sala, con numerosi interventi incentrati sull’influenzamento reciproco che si verifica nella diade madre-bambino (Meterangelis, Lupinacci) e sul rapporto tra simbolizzazione e linguaggio. Mazzacane riprende degli aspetti del discorso di Cimatti relativi alla citazione di Winnicott e di Alagnier, sottolineando che la psicoanalisi contemporanea si interroga sullo stile delle interpretazioni (che preferisce denominare “interventi”) e rimarcando l’uso dello strumento linguistico della mitigazione; afferma, altresì, che il linguaggio si istituisce attraverso movimenti inconsci intersoggettivi. Cimatti ritorna sulle origini del linguaggio evidenziando che la comparsa della specie umana è ad esso antecedente e che il tratto che distingue il linguaggio umano da quello animale è l’assenza, in quest’ultimo, della negazione. Non si dice interessato alla distinzione tra linguaggio verbale e non verbale, poiché anche i gesti non verbali non possono che essere influenzati dal linguaggio, perché sono gesti di corpi che si trovano nel campo del linguaggio. Rispetto al rapporto tra linguaggio e simbolizzazione, afferma che sia difficile postulare che possa esistere il linguaggio senza simbolizzazione. Concorda sull’influenzamento reciproco tra le menti di Piggle e di sua madre, pur evidenziando la sproporzione, la asimmetria tra i loro ruoli.
Rocchetti evidenzia la natura di inter-azione dell’enactment e che la parola è azione, citando un passaggio della relazione di Mazzacane in cui riporta l’affermazione di Levenson (2006) “la parola altro non è che un’altra forma di descrivere l’azione e viceversa”. Ipotizza, inoltre, che un campo in cui non si verificano fenomeni di enactment possa essere un campo malato e che essi possano rappresentare una fantasia inconscia del terzo prodotta dalla coppia analitica. Anche l’interpretazione, sostiene, è un’azione-parola.
Meterangelis, in riferimento allo sviluppo di una risposta immunitaria da parte della coppia analitica in reazione alle vicissitudini relazionali del processo proposta metaforicamente da Mazzacane, replica utilizzando l’esempio delle cellule placentari: nel loro DNA è compreso un gene di derivazione retrovirale che consente loro di unirsi in sincizi. Un’antica infezione ha dunque esitato nell’integrazione di un gene virale nel genoma di una cellula umana, consentendo lo sviluppo della placenta; similmente, i processi di interiorizzazione della figura dell’analista da parte dei pazienti non conducono allo sviluppo di anticorpi, ma all’assunzione da parte dell’analizzando di aspetti del Sé dell’analista che diventano proprie. Analogamente, in alcuni casi osservati dai trapiantologi, si assiste al riconoscimento progressivo come self di organi trapiantati in assenza di utilizzo di immunosoppressori La psicoanalista Susan Bach ha denominato questo fenomeno “chimerizzazione”. Infine, Romani chiede a Cimatti se ci sia qualcosa che cada fuori dal gesto descrittivo/prescrittivo del linguaggio e quale sia il suo destino; il filosofo risponde che la fuga dal dispositivo istitutivo risiede nella poesia, che rappresenta un tentativo di abitare il linguaggio in un modo che tenta di sottrarsi da sé stesso, e nella presa di posizione rispetto all’operazione che ha prodotto la soggettività, attraverso la negazione, tratto distintivo del linguaggio umano.