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Report di Luciana Zecca su "Fare Gruppo", 13 giugno 2015

Sabato 13 giugno 2015 si è svolto, presso il Centro di Psicoanalisi Romano, il Seminario Fare Gruppo, presentato tra le iniziative, in continuità con la tradizione del Centro, per lo sviluppo della ricerca e della pratica di una “psicoanalisi oltre il lettino”.

Attraverso la presentazione del libro FARE GRUPPO NELLE ISTITUZIONI, Lavoro e psicoterapia di gruppo nelle istituzioni psichiatriche, a cura di Claudio Neri, Roberta Patalano e Pietro Salemme, (editore FrancoAngeli), i relatori hanno proposto riflessioni ricche e articolate sia sul contributo che la psicoanalisi può fornire al lavoro delle istituzioni (specialmente di quelle che si occupano della salute mentale), sia come riflessione che le istituzioni, compresa quella psicoanalitica, possono promuovere su se stesse. E’ nato un vivace e composito dibattito, piuttosto difficile da riassumere in poche righe.

            Dopo l’introduzione di Angelo Macchia, Giorgio Corrente ha presentato la relazione: Il gruppo come “medium" tra l’individuo e l’istituzione, dove la parola medium è usata nel senso di tramite, collegamento tra le distanze. L’interrogativo centrale, che prende le mosse dall’intervista che J. Barnett fece a Bion, è come rendere le istituzioni vive, elastiche, creative, laddove la gerarchizzazione e lo stile verticistico, propri delle istituzioni in generale e di quelle che si occupano di salute mentale in particolare, tendono ad alimentare la malattia mentale degli stessi operatori.

Un Gruppo di lavoro che persegua la finalità di portare avanti un compito, può funzionare come organizzatore, e contribuire a “dare un’anima” all’istituzione, mantenendola più vitale.

Naturalmente, non tutti i gruppi di lavoro sono simili: se pensiamo ai gruppi di lavoro del dr. Mengele, o ai gruppi di Tareas in Argentina, (quei gruppi militari e paramilitari che lavoravano per la Desapareciòn), ci rendiamo conto che i gruppi di lavoro possono essere dominati dagli assunti di base, e essere organizzati sulla paranoia.

Cos’è dunque fare gruppo oggi? Il passaggio da gruppo razionale a gruppo di lavoro consiste proprio nell’instaurare una collaborazione finalizzata a portare avanti un compito. Possiamo partire da un piano conscio, nel quale aiutare un altro è anche avere cura di sé. Un compito è portare avanti la cura, l’altro è favorire l’uso di strumenti che si possono sviluppare grazie al setting e che si espandono in un campo. Tali strumenti sono la visione binoculare che consente di avere presenti, contemporaneamente, il punto di vista dell’individuo e quello del gruppo, ma anche la funzione polioculare (Corrente cita G. Margherita), che si sviluppa nel campo esperienziale del gruppo di lavoro, come funzione della mente gruppale e individuale. Nel gruppo siamo attori e spettatori partecipi.

Il gruppo cura la malattia resa presente, nel campo, dal singolo: il gruppo cura la malattia curando il singolo, e cura sé stesso.

E’ possibile collegare la funzione polioculare al pensiero di Bion e di Corrao. La conoscenza è possibile attraverso i legami, dove K è l’incontro di almeno due menti, che costituiscono una diade; nel gruppo si tratta di una poliade.

Il Gruppo terapeutico (privato e istituzionale) può sviluppare le trasformazioni sopra descritte, all’interno di un setting e con la presenza di un analista.

Andrea Narracci, nella relazione La Psicoanalisi Multifamiliare come esperanto, ha dapprima presentato un excursus sull’attuale organizzazione e coordinazione dei Servizi per il trattamento delle patologie mentali gravi, evidenziando l’enorme difficoltà degli operatori alle prese non solo con situazioni cliniche particolarmente impegnative, ma anche con la solitudine in cui ciascun operatore resta confinato e con la frustrazione legata all’impossibilità di offrire un percorso terapeutico coerente e integrato.

Ha quindi descritto con pacatezza, ma in modo piuttosto emozionante, il lungo processo che lo ha condotto a ipotizzare prima, e realizzare poi, un complesso procedimento di cura per giovani psicotici, il cui nucleo centrale è il cosiddetto “Quadrilatero”, un sistema d’intervento definito sincronico, in alternativa a quello diacronico in cui la mancanza di coordinazione e cooperazione tra le diverse strutture preposte alla cura dei pazienti con disturbi mentali gravi, fa sì che a partire da un primo ricovero in SPDC, il paziente raggiunga le successive strutture per il trattamento (CSM, Centro Diurno, Comunità Terapeutica e così via) in modo non organizzato e non inserito in un progetto terapeutico, con un impatto negativo sulle possibilità di cura e una forte tendenza alla cronicizzazione dei disturbi.

Il processo parte da lontano e fa capo a un’esperienza nata con Jorge Garcia Badaracco, psichiatra e psicoanalista, nell’istituzione dell’Ospedale Psichiatrico, a contatto con pazienti gravi.

L’idea, che Narracci ha sviluppato e sperimentato progressivamente, si è basata sull’avvio di un Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare all’interno di un Servizio, con lo scopo sia di contrastare i gravi fenomeni patologici presenti nelle famiglie, riavviando così i processi di crescita e soggettivazione, sia di aumentare il grado di collaborazione tra gli operatori di uno stesso Servizio e tra operatori di strutture differenti.

Nello specifico, cominciando dai pazienti più giovani, per ogni nuovo caso, è diventato possibile costruire un itinerario terapeutico, nel quale CSM, SPDC, CTI Ripa Grande e Servizio Di Psicoterapia Per Giovani Adulti Colpo D’ala, avrebbero comunicato reciprocamente, grazie alla presenza della cosiddetta antenna sensibile (in ciascuno di questi Servizi) ovvero della figura che assicura i collegamenti nel più breve tempo possibile.

Ogni mese i rappresentanti dei Servizi del Quadrilatero s’incontrano e verificano lo stato dell’arte e la reale condivisione.

Si è così costruito un itinerario terapeutico per ciascun nuovo paziente, il cui progetto è strutturato dal DSM con la partecipazione dei Servizi nel processo di elaborazione.

Alla relazione di Narracci è seguita la presentazione di Claudio Neri, il quale ha descritto il modo in cui è stato concepito FARE GRUPPO NELLE ISTITUZIONI, Lavoro e psicoterapia di gruppo nelle istituzioni psichiatriche, evidenziandone man mano caratteristiche e obiettivi. Il libro si fonda sull’idea strategica di permettere di confrontare e riunire operatori che lavorano con i gruppi, anche molto diversi tra loro. Non si tratta di un libro collettaneo, anzi è un testo che ha richiesto un lungo lavoro di preparazione e di équipe, un’équipe formata dai cosiddetti senior (una ventina tra psicoanalisti e non, che stanno operando in Italia nelle istituzioni con ispirazione alla teoria psicoanalitica), e junior (studenti ed ex studenti, oggi giovani professionisti, arrivati nell’università). Sono stati necessari circa cinque anni e alla stesura hanno partecipato quarantacinque autori.

Neri ha poi definito i termini di “gruppo” e “istituzione”, tracciando confini più netti e utili, sia allo sviluppo del pensiero intorno a tali termini, sia ad un confronto con i partecipanti al Seminario. Le istituzioni, piuttosto che essere gusci calcificati e morti contrapposti agli individui (visione quest’ultima, che pone la questione nei termini di un insolubile antagonismo), sono considerati oggetti particolarmente complessi, che sono presenti anche in ciascun individuo che a quell’Istituzione appartiene. Paradossalmente, il rigore terminologico proposto, che ha tenuto in debito conto la complessità del tema, ha portato con sé un ampliamento della visione dell’istituzione: l’istituzione è certamente un insieme di persone, ma è anche un insieme di regole; e ancora: è sì una gerarchia, ma è anche una serie di routine che è stata resa operativa e su cui si può contare; l’istituzione è poi qualche cosa che corrisponde anche a dei luoghi fisici, e che è fuori di noi (Out there), ma è anche dentro di noi (In the mind). Quest’ultimo punto ha un corollario importante: se si modificano solo le condizioni esterne, senza modificare anche le condizioni dentro di noi, qualsiasi tentativo di cambiamento non può che fallire.

Questa grande complessità dell’istituzione, fa sì che il primo incontro con essa abbia un effetto comparabile con quello che Marshall Mc Luhan ha definito come l’impatto con un nuovo medium: una sorta di blocco cognitivo accompagnato da un’anestesia, qualcosa che somiglia a uno shock, con un crescendo emozionale destabilizzante. Il modo in cui la situazione può evolvere, e semmai stabilizzarsi, dipenderà anche dal contesto: di grande aiuto in tal senso, è la presenza di una figura di tramite, un garante (e qui Neri ricorda due analisti del Centro Psicoanalitico di Roma, Eugenio Gaddini con la sua funzione di garante, e Piero Bellanova con la sua funzione operativa). La presenza di un piccolo gruppo nell’istituzione può essere di vantaggio e svolgere una serie di funzioni, funzioni di rifornimento affettivo, funzioni di promozione del cambiamento, che sono diverse da quelle proprie dell’istituzione. Il rischio è che questi piccoli gruppi pretendano poi di occupare il posto che sarebbe proprio delle istituzioni e diventino così delle cordate, delle organizzazioni chiuse che si sostituiscono alle istituzioni. A partire dallo shock che si ha quando si entra in un’istituzione, Neri segnala che l’elemento cruciale non è tanto il sentimento persecutorio (come descritto da Kernberg), ma una fortissima necessità di essere visti. Kaës diceva: i congressi sono apparati di messa in visibilità, e soggiungeva subito dopo: nessuno riceve tutta la luce sufficientemente dorata che desidererebbe avere. Essere visti, riconosciuti, pensati, dunque. Essere pensati significa anche potersi collocare in una struttura chiara, che possa consentire anche che il soggetto veda se stesso all’interno della struttura di cui fa parte. Non è meno importante il bisogno di pensare l’istituzione, anche se si tratta di un compito difficile; se non riusciamo a farlo, come individui e come gruppi, ci troveremo continuamente sballottati tra due scelte, ambedue perdenti: trovarci completamente nell’istituzione con le sue dinamiche e i suoi assunti di base, e con la necessità di adeguarci spesso in modo conformistico o ribellistico; oppure cercare di avere a che fare il meno possibile con l’istituzione per metterci in salvo. Pur ricordando che sono molti i motivi che rendono difficile pensare l’istituzione, Neri sottolinea, tra questi, la difficoltà connessa al fatto che l’istituzione è una forma sociale, costituita da pensieri che esistono fuori di noi, che non siamo noi ad avere creato o pensato, ma che incontriamo e che, si potrebbe dire, sono per noi dei pensieri senza pensatore, nel senso che ancora non ci siamo posti come pensatori in grado di pensare queste forme complesse, ma anche vive, che sono le istituzioni. Il pensare l’istituzione diventa dunque la possibilità di uscire dalle due scelte sopra menzionate.

Il dibattito che ha concluso la sessione del mattino è stato vivace, fertile, ed è difficile dare conto, nello spazio a disposizione, della complessità degli spunti e delle riflessioni. Un commento d’insieme che renda l’atmosfera che si è sviluppata, è forse sufficientemente sintetico: ciascuno ha offerto il proprio contributo, favorendo lo sviluppo del pensiero nel gruppo e per il gruppo al lavoro.

La sessione pomeridiana si è aperta con la presentazione di Alessandro Antonucci, cui è seguito l’intervento di Giovanni Foresti, fresco di elezione nel Board of Representatives dell'IPA. In un’articolazione continua tra il lavoro di psicoanalisti nella stanza d’analisi e quello di psicoanalisti al lavoro all’interno di un’istituzione, Foresti ha proposto un’utile distinzione fra interpretazione e ipotesi teorico-clinica, definendo interpretazione il lavoro senza fine, operato attraverso la sintesi dialogica, che mira a rilanciare la rielaborazione clinica e a promuovere l’ulteriore sviluppo del lavoro interpretativo, e ipotesi teorico-clinica la costruzione provvisoria e aperta, che propone nessi tra pensieri, modelli, concetti, in vista del compito istituzionale e delle decisioni che lo realizzano. La differenza concettuale sostanziale tra un’interpretazione e un’ipotesi, può aiutare a comprendere come nel lavoro istituzionale, le ipotesi organizzino, rendano dialettico, dinamizzino, il ritmo del lavoro quotidiano, inserendosi in una sequenza che di solito è quadripartita, nel senso che un gruppo istituzionale che funziona, dovrebbe riuscire a distinguere quattro diversi momenti:

  1. Discutere e pensare
  2. Sintetizzare e decidere
  3. Programmare e attuare
  4. Verificare e ripensare

Il momento delle decisioni richiede di confrontarsi con il limite ed è perciò un momento doloroso, a causa del lutto che il gruppo deve fare riguardo alle illusorie possibilità d’intervento. La partita si gioca sulla rinegoziazione dell’onnipotenza.

Si può pensare al lavoro istituzionale come a un’opera musicale, suonando la quale dei buoni jazzisti riescano a trovare gli elementi su cui s’intenderanno, di solito una nota di fondo, una chiave e poi un giro melodico, su cui ciascuno è libero di tentare i propri assoli, facendo sì che l’insieme funzioni e che il gruppo produca qualcosa di ascoltabile, e non soltanto una polifonia, una polifocalità, perennemente ectopica, con un rilancio ad libitum di ridefinizione delle finalità e delle priorità.

Foresti ha poi richiamato l’attenzione sulla crescente divaricazione, nelle istituzioni che si occupano di salute mentale, tra coloro che hanno ruoli apicali e responsabilità di governo, e coloro che lavorano con i pazienti. Tale divaricazione, lungi dall’essere casuale, è piuttosto promossa ad hoc, giacché un dirigente che abbia contatto con le persone con le quali opera, ha, oltre alla propria autorità, la forza che il riconoscimento dei suoi operatori può conferirgli. Tenere i dirigenti sempre segregati in una riunione di budget, li rende meno in grado di negoziare e più esposti a prendere ordini e cercare di applicarli.

Nel lavoro istituzionale, il compito del gruppo dirigente consiste nel fare una serie di operazioni che, partendo dalle idee che il gruppo ha fino a quel momento prodotto, portino a una sintesi che renda possibile proporre un’ipotesi. Il gruppo riceve, da chi ne ha le responsabilità di governo, la possibilità di riequilibrare periodicamente e costruttivamente il rapporto che c’è tra i propri inevitabili assunti di base e il funzionamento in assetto di gruppo di lavoro. Non c’è un gruppo di lavoro che non abbia un assunto di base; solo conoscendo l’assunto di base prevalente nel gruppo del quale si fa parte, si riesce a immaginare che cosa può essere fatto in quel gruppo, per proporre una sintesi, ed un’ipotesi che possa funzionare.

La relazione di Roberta Patalano ci porta nel vivo dell’esperienza legata alla nascita del libro Fare Gruppo, del quale è stata curatrice. L’attività di curatela aveva come obiettivo quello di riuscire a dare al lettore l’impressione che i diversi capitoli provenissero da un’unica voce narrante, pur rispettando le diversità concettuali presenti nei testi dei quarantacinque autori.

Ci porta nel vivo, si diceva, e doppiamente, giacché l’avvio del lavoro a lei affidato, è avvenuto poco dopo il suo secondo parto, e questo ha favorito un particolare legame sia con il libro, sia con gli autori che l’aiutavano a mantenere il contatto tra la sé stessa prima del parto e quella alle prese con la nuova maternità. Il retroscena, generosamente narrato, sembra avere dato un’impronta decisa, sia all’esperienza del libro, sia a quella della maternità, sia alle riflessioni che ne sono scaturite. Una di queste è il pensiero che dietro le cose ci sono sempre delle persone, con le loro motivazioni. Questione da non dimenticare, e che è la base del percorso che l’autrice propone. Il mandato della psicoanalisi nelle istituzioni è innanzitutto quello di consentire alle persone di recuperare il legame con la realtà in quanto creazione propria, recuperando così anche il significato e l’importanza del ruolo di autori. Quando si entra in un’istituzione, si fa il proprio ingresso in una tradizione decisa da altri. E lì, sulla soglia, ci sono due possibilità: la prima è di farsi assorbire, di cercare di adattarsi anche quando questo confligge con i propri desideri; la seconda, è di seguire una strada che richiede un maggiore sforzo di partecipazione, e di cercare di rappresentare quell’istituzione dentro di sé, riflettendo su cosa essa significhi e su come ciascuno possa adattarla alla propria storia personale, interrogandosi su quale apporto sia possibile fornire al suo funzionamento. S’intuisce che la seconda ipotesi offre maggiori possibilità di accrescere la gratificazione nel legame con l’istituzione. Il concetto winnicottiano di creatività primaria è stato discusso come relativo alla primissima infanzia, ma di fatto si tratta di un compito che è significativo lungo l’intero arco della vita. Qualsiasi ricercatore alle prese con una teorizzazione personale, rischia di rimanere schiacciato dal compito di rendersi edotto su tutta la letteratura che l’ha preceduto in merito all’oggetto della sua ricerca. E dunque, sulla soglia di un’istituzione che ci aspetta, con la sua semiosfera già strutturata prima del nostro arrivo, è molto importante non rinunciare a costruire la propria prospettiva su quell’istituzione, mantenendo questa capacità creativa.

Nella parte conclusiva, Roberta Patalano pone tre interrogativi, emersi durante il suo lavoro di curatela:

  • come sia possibile instaurare un rapporto creativo con le istituzioni
  • come fare in modo che il mondo esterno non sia per noi anche estraneo
  • cos’è il processo di cambiamento

Ancora una volta, Winnicott sembra offrire degli strumenti concettuali utili per affrontare tali interrogativi e per legarli tra loro. E’ attraverso il mantenimento di una possibilità creativa, che pure cambia forma nel corso della vita, ma la cui funzione rimane la stessa, che possiamo fare in modo che il mondo esterno abbia per noi un significato, perché è con il significato che possiamo entrare in relazione, non con il fatto in sé.

Riporto testualmente la conclusione di Patalano:

“E poi, se qualcosa non ci piace, possiamo sempre provare a cambiarla, perché nella società il cambiamento non è assimilabile a una catastrofe naturale, non è un evento accidentale, salvo casi estremi. C’è sempre una parte di cambiamento che dipende da noi: è quella parte che ha a che fare con la nostra identità e che ci porta di volta in volta a ridefinire che cosa possiamo includere nel me, nell’immagine che abbiamo di noi stessi, e che cosa, invece, sentiamo, sulla soglia, di dover lasciare fuori”.

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