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Report di David Ventura su "Traumi e loro destini" (8-9 maggio 2015)

Il Centro di Psicoanalisi Romano (CdPR), nell’ambito dell’iniziativa annuale del “Centro fuori dal centro”, ha partecipato nel mese di maggio a due incontri seminariali presso l’Università “G. d’Annunzio” di Chieti e Pescara (Ud’A), organizzati in collaborazione con l’Associazione Psicoanalitica Abruzzese (APA) e la stessa Università.

Nel pomeriggio di venerdì 8 maggio si è svolta la Tavola Rotonda Quale psicoanalisi per l’Università?”

L’incontro è stato aperto dal Prof. Liborio Stuppia (Prof. Straordinario di Genetica Medica Ud’A) che ha portato i saluti del Rettore e ricordato come nello stesso giorno si celebrasse il cinquantesimo anniversario della fondazione dell’università abruzzese. Giornata pertanto di convegni e riflessioni sull’istituzione universitaria che, secondo Stuppia, versa nelle condizioni di un “paziente da psicoanalisi” per tutti i guasti provocati dalla legge Gelmini. Tra questi vi sono quelli legati ai nuovi criteri di selezione del corpo docente che ad esempio, imponendo una dimostrazione delle basi biologiche su cui si fonda, minacciano la sopravvivenza della stessa psicoanalisi all’interno del sistema universitario. Come genetista, Stuppia ha poi sollecitato gli psicoanalisti a prestare attenzione alle promettenti conquiste dell’epigenetica, destinata a rivoluzionare molti campi del sapere scientifico.

Il Prof. Adolfo Pazzagli (Prof. Emerito di Psicologia Clinica dell’Università di Firenze, Membro Ordinario con Funzioni di Training e Presidente AIPsi), per introdurre gli interventi alla tavola rotonda coordinata insieme al Prof. Mario Fulcheri (Ordinario di Psicologia Clinica Ud’A), ha ricordato lo scritto di Freud “Bisogna insegnare la psicoanalisi nell’Università?” dato alle stampe nel 1918, anno in cui a Ferenczi fu assegnata una cattedra a Budapest. Pazzagli ha ripercorso il testo freudiano illustrandone il parere positivo e i vantaggi che l’università avrebbe conseguito con l’introduzione della psicoanalisi. In particolare si è soffermato a discutere sulla necessaria discriminazione tra una psicoanalisi intesa come teoria della mente, da trasmettere nell’insegnamento universitario, e una psicoanalisi intesa come prassi di relazione che coinvolge due persone. Ha poi affermato il proprio disaccordo con l’opinione di Freud circa la scarsa rilevanza che, al contrario, l’università ha per l’istituzione psicoanalitica, i cui processi formativi sono garantiti dall’IPA. Per spiegare la propria visione, Pazzagli ha rovesciato il titolo della tavola rotonda: piuttosto che “quale psicoanalisi per l’università?”, ci si dovrebbe chiedere “quale università per la psicoanalisi?”. E’ infatti suo convincimento che nel nostro paese le carenze di riflessione sulla concezione dell’università abbiano portato a guardarla come a una sede di mero apprendimento di nozioni piuttosto che come un luogo in cui fare esperienza di un metodo di ricerca. E’ solo attraverso tale sperimentazione che si rende possibile l’apprendimento di un metodo, realizzando con ciò il vero fine dello studio universitario. Concependo in tal modo l’università, si può allora trovare – ha concluso Pazzagli - un terreno comune con la psicoanalisi.

Ha poi preso la parola la Prof.ssa Carla Candelori (Ordinario di Psicologia Dinamica Ud’A, Psicoterapeuta Didatta AIPPI) rammentando che l’istituzione della cattedra di Ferenczi nacque da una petizione di studenti che riconoscevano nel sapere psicoanalitico una portata rivoluzionaria per la cultura e i costumi del tempo. E’ quindi necessaria – secondo la Candelori - una riflessione su come la psicoanalisi è percepita dagli studenti di oggi. Sebbene l’integrazione tra le diverse offerte didattiche debba ancora migliorare, attualmente nell’università abruzzese la psicoanalisi occupa un ampio spazio nei corsi di Psicologia Clinica e Dinamica. E’ interessante osservare che il seminario di maggiore successo tra gli studenti è quello concernente il “Modello psicoanalitico e lavoro istituzionale”, dove psicoanalisti impegnati nei servizi pubblici sono invitati a parlare della propria esperienza. Nonostante tale interesse, la disponibilità di tirocini presso istituzioni sanitarie del territorio che lavorano con un orientamento analitico è tuttavia inferiore alla domanda degli allievi. Per rendere più efficace l’insegnamento della psicoanalisi, la Candelori ha poi proposto la necessità di individuare quegli strumenti, come ad esempio l’osservazione psicoanalitica, che possono essere utilizzati trasversalmente nei seminari delle aree specialistiche.

Il Prof. Massimo Di Giannantonio (Ordinario di Psichiatria Ud’A), riprendendo le parole di Stuppia circa i problemi legati alla legge Gelmini, ha sostenuto che l’Impact Factor (I.F.)[1] determina una “dittatura portatrice di criteri di valutazione oggettivizzanti” dell’università, della formazione e dei docenti, “definendo indirettamente cosa deve essere intesa come scienza”. Una formazione universitaria oggi legata a criteri di verificabilità e di oggettività che portano, di fatto, a scindere la complessità della sofferenza umana e soprattutto la soggettività dell’uomo. Sembra - ha detto Di Giannantonio - di essere tornati al 1923 quando in epoca fascista Gentile soppresse le cattedre di Psicologia definendole “un guazzabuglio inutile e pericoloso di pseudo scienza e pseudo teorie non verificabili”. E’ quindi necessario combattere una battaglia culturale e scientifica. In tal senso il dipartimento di psichiatria dell’università di Chieti, nel tentativo di coniugare il sapere psicoanalitico con le recenti acquisizioni neuroscientifiche, è orientato alla ricerca nel campo della neuropsicoanalisi, più specificamente allo studio dei fattori di vulnerabilità neurobiologica e alla validità del trattamento psicoanalitico.

Il Prof. Giustino Galliani (Docente a contratto Ud’A, Presidente e Didatta APA)ha proposto di guardare al rapporto tra università e psicoanalisi in termini di processi trasformativi. Se l’università è concepita come un “luogo di transizione” delle trasformazioni dell’individuo, è indispensabile che la psicoanalisi individui una metodologia d’insegnamento che favorisca tali trasformazioni. Galliani ha quindi illustrato la propria ipotesi metodologica che nasce dall’esperienza di docenza in laboratori di consultazione psicoanalitica. Assumendo i seminari come dei contenitori in cui è possibile sviluppare il funzionamento della mentalità gruppale, è stato per lui possibile osservare la creazione di uno spazio “ludico” in cui gli studenti progressivamente hanno cominciato a usare il loro stessi vissuti emotivi come fonte delle ipotesi concernenti il materiale clinico presentato. All’usuale apprendimento degli aspetti diagnostici legati all’osservazione, si è in altre parole affiancata una tendenza all’autosservazione che ha trasformato lo stato emotivo dei partecipanti in un’altra fonte di conoscenza. Affinché trovi risonanza all’interno dell’ambiente universitario – ha affermato Galliani - è necessario che la psicoanalisi promuova un apprendimento realmente trasformativo con la creazione di simili aree “di transizione”, nelle quali il processo del conoscere incoraggi anche il diventare l’oggetto che si vuole conoscere”.

Il Prof. Nicolino Rossi (Ordinario di Psicologia Clinica dell’Università di Bologna, Membro Ordinario SPI) ha ricordato le parole di Kernberg circa l’impossibilità per l’istituzione psicoanalitica di fare a meno dell’università. Affinché la psicoanalisi possa mantenersi vitale con l’apporto di giovani e validi professionisti, è necessario farne apprezzare l’approfondita capacità di comprensione clinica fin dai seminari universitari. Parlando della propria esperienza presso l’Ateneo di Bologna, ha denunciato come la presenza di docenti affiliati all’IPA e di formazione psicoanalitica calerà drasticamente nell’arco di breve tempo, passando dalla decina di qualche anno fa a solo due insegnanti. Ciò può costituire un esempio del cambiamento culturale cui stiamo assistendo. Durante i corsi agli operatori socio-sanitari - ha poi aggiunto Rossi - accade sempre più spesso di ascoltare critiche riguardanti l’obsolescenza della psicoanalisi. Oltre che dalle mancanze dei processi formativi, non bisogna dimenticare che le critiche nascono anche dalla ribellione emotiva contro il potere seduttivo/traumatico che contraddistingue la psicoanalisi, un rischio sempre presente per questo insegnamento a differenza della neutralità emotiva che caratterizza le discipline naturalistiche. E’ quindi necessaria un’ulteriore riflessione sul modo più efficace di insegnare e trasmettere la materia secondo chi ci si rivolge e al loro grado di formazione. Riprendendo in conclusione il discorso di Di Giannantonio, Rossi ha messo in guardia dal pericolo di trasformare la psicoanalisi in una disciplina neuropsicologica: se infatti è vero che un certo tipo di ricerca è funzionale alla produzione scientifica e al buon nome della psicoanalisi, è altrettanto vero che c’è il rischio di un allontanamento dalla dimensione clinica e dal formare operatori in grado di lavorare direttamente con le persone.

Rispetto all’indebolimento del rapporto tra psicoanalisi e università, il Prof. Mario Fulcheri ha denunciato le responsabilità degli stessi istituti di psicoanalisi che soprattutto in passato, afflitti al loro interno da dinamiche conflittuali e di potere, hanno guardato all’università con un senso di pseudo superiorità. Così come Kernberg ha denunciato, le istituzioni psicoanalitiche corrono il rischio di diventare delle “isole ideologiche alla deriva tra gli oceani della cultura[2]. Oggi è sempre più necessario un riavvicinamento tra psicoanalisi e università al fine di influire sul cambiamento culturale in atto e per contrastare l’idea, che va diffondendosi soprattutto in psichiatria, che sia preferibile divenire scienziati piuttosto che uomini di scienza. Citando EugenioBorgna, Fulcheri ha infatti sostenuto che il divenire scienziato è una fascinazione sempre presente per chi cura la sofferenza umana, sebbene uno scienziato non possa far altro che esercitare “il gelido sguardo di Medusa” verso l’uomo. Attualmente i rapporti tra psicoanalisi e università sono inoltre segnati dalla confusione dello stesso ordinamento universitario che si presenta in continuo cambiamento tra lauree triennali e magistrali, cui si aggiunge il florilegio di scuole di psicoterapia spesso non all’altezza del compito formativo.

Conclusi gli interventi, si è poi aperto il dibattito con il pubblico che ha visto una numerosa partecipazione di studenti universitari e specializzandi. Dapprima si è discusso dei cambiamenti legislativi occorsi negli ultimi anni che hanno radicalmente modificato le professioni di cura della sofferenza mentale. Tra le maggiori conseguenze vi è la formazione di un mercato della psicoterapia che si contende i più di centomila psicologi italiani. La formazione e la professione psicoanalitica, un tempo svincolate da un quadro legislativo, si declinano ora all’interno di un campo molto più dilatato, costrette a fare i conti sia con il ministero, che decide ore e programmi d’insegnamento in Psicologia Dinamica e in Psicologia Clinica da svolgere all’interno della laurea triennale in Psicologia, sia con l’orientamento culturale delle singole università che decidono in maniera autonoma i corsi per la laurea magistrale. Così come sta già accadendo nel caso della laurea in Medicina e della specializzazione in Psichiatria, c’è il rischio di una preoccupante compressione delle ore dedicate a quegli insegnamenti che danno spazio alla psicoanalisi.

Il dibattito è poi proseguito intorno al ruolo e al modo in cui l’istituzione psicoanalitica può affrontare tale scenario. Sebbene per tutelarne identità e fondamenti non si possa piegare la formazione psicoanalitica alle leggi del mercato, è la stessa IPA a sollecitare le diverse società nazionali a promuovere riflessioni e iniziative sul territorio tendenti ad aprire l’istituzione psicoanalitica e ad esplorare le possibili estensioni del metodo. Le iniziative intraprese in tal senso, come ad es. gli incontri gruppali con ginecologi pediatri infermieri ecc., si sono rivelate degli utili strumenti per far sperimentare la specifica capacità della psicoanalisi di offrire uno sguardo e una tensione verso la qualità della relazione con l’Altro. Sperimentazioni del metodo che divengono ancor più importanti all’interno dell’università, pur distinguendo tra i vari livelli di formazione e i diversi indirizzi di studio.

In ultimo, su stimolazione degli studenti, si è tornati discutere sulle continuità e le discontinuità esistenti tra gli statuti epistemologici della ricerca neurobiologica e della pratica clinica.

 

Nella giornata di sabato 9 maggio si è svolto il seminario “Traumi e loro destini” articolato in una sessione mattutina e una pomeridiana che ha proposto delle riflessioni teorico-cliniche sul trauma.

La sessione mattutina è stata coordinata dal Dr. Giustino Galliani che in apertura ha evidenziato come l’incontro tra il CdPR e l’APA cadesse a ridosso dei novanta anni dalla fondazione della Società Psicoanalitica Italiana, avvenuta per merito di Marco Levi Bianchini nella città abruzzese di Teramo il 7 giugno del 1925.

Ha poi preso la parola la Dr.ssa Carla Busato Barbaglio (Membro Ordinario SPI con Funzioni di Training)che ha letto la relazione “Giorno dopo giorno la costruzione del trauma”, un lavoro teso a esplorare e a formulare alcune ipotesi concernenti l’instaurarsi di una psicosi schizoaffettiva in un giovane paziente nato dopo una difficile gravidanza. Citando una ricca messe di ricerche che evidenziano l’influenza della qualità dell’intimità genitoriale sul processo di concepimento e gli effetti generati sul feto dallo stato emotivo e sensoriale della madre, la Busato assume che la relazione madre-figlio cominci “in utero come scambio di sensazioni, emozioni, sostanze e ormoni che andranno a plasmare l’evoluzione successiva”. Si tratta di un reciproco processo di regolazione tra madre e feto dove il biologico è già relazionale, una relazione piena di “tira e molla” delicatamente bilanciati (G. Music, Nature culturali, 2013) che influiscono sul successivo percorso identitario del bambino. Da questo vertice, una gravidanza che per qualche motivo è vissuta con grave angoscia da parte della madre e dell’ambiente circostante costituisce “di per sé un elemento di trauma che si trasferisce poi nell’incontro tra i due”, condizionando quei processi di sintonizzazione sé-altro che permettono la regolazione dell’affetto, il funzionamento riflessivo e le relazioni interpersonali. Ci si muove quindi in una concezione del trauma inteso “come storia che si accumula piuttosto che come evento dirompente e scardinante”. Citando Damasio e Panksepp, la Busato rimarca come nei casi più gravi gli organismi tendano a ridurre la loro vitalità innanzi a un ambiente esterno percepito come pericoloso o non adatto e come una prolungata sofferenza possa indurre nei bambini disturbi cronici dell’umore che tendono ad esaurire la spinta verso la giocosa ricerca degli altri. In tali condizioni, i bambini “si impegnano molto per leggere la mente degli altri, ma lo fanno da un luogo pieno di paura, per evitare un pericolo piuttosto che con un interesse genuino, simpatia o compassione per un altro individuo” (G. Music, Nature culturali, 2013, pag. 224). Se da una parte il trauma sembra allora configurarsi al di fuori di una matrice temporale, dall’altra accompagna e significa ogni esperienza e ogni livello di crescita continuando a generare dissociazioni e nuovi effetti traumatici che alimentano la paura della disregolazione affettiva e un senso identitario continuamente sfuggente. Nei casi più gravi - ipotizza la Busato - questo stato potrebbe forse essere alla base di deliri e allucinazioni. E’ “una qualità di vita che fa male, che erode la vita stessa. In questo senso diventa fondamentale la qualità del lavoro dell’analista […] perché si possa creare una rete contenente e protettiva e possibilmente rivitalizzante. Una contro-erosione”. Per far ciò è importante stabilire una relazione vitale con il paziente attraverso il continuo monitoraggio del corpo e della sensorialità vissuta in seduta (P. Ogden), privilegiando gli elementi di desiderio e piacere piuttosto che quelli difensivi. L’elaborazione congiunta che ne consegue può allora aprire la via alla tollerabilità della paura della disregolazione affettiva (“l’ombra dello tsunami” di Bromberg) permettendo di avviare così nuovi processi integrativi.

Il Dr. Angelo Macchia (Membro Ordinario SPI) con la relazione “Tracce sonore mute” ha proposto delle riflessioni sul lavoro psicoanalitico relativo ai traumi che occorrono in epoca precoce. Presentando il materiale clinico di un giovane uomo appassionato e motivato all’analisi, ha evidenziato e discusso le improvvise perdite di vitalità cui la loro relazione andava singolarmente incontro nonostante il soddisfacente dialogo analitico. Perdite di vitalità che solo ad analisi avanzata scoprirà poter essere legate a una situazione traumatica accaduta in utero durante la gestazione del paziente. Si tratta di situazioni traumatogene che - propone l’Autore - s’inscrivono nella formazione del Sé mediante quelle memorie, variamente definite secondo l’orientamento teorico e di ricerca, che precedono o prescindono o interferiscono con la capacità di rappresentazione dell’individuo. Memorie che pur non essendo verbalmente comunicabili, trovano nel transfert la possibilità di esprimersi ed essere riconosciute al livello del processo analitico ovvero nel “modo” in cui si parla e nei fenomeni relazionali che generano. A tal proposito, ricordando il Bion dei seminari di Los Angeles che esortava l’analista ad andare oltre lo spettro della parte verbalmente comunicabile dell’esperienza psicoanalitica e i concetti di madre-ambiente di Winnicott e di ordine “materno” di Bollas, Macchia suggerisce di estendere il concetto winnicottiano di “holding” al periodo prenatale perché “prima di essere tenuto tra le braccia, il bambino è tenuto nella pancia della madre ed è lì che fa le prime esperienze rudimentali di una continuità dell’essere, del ‘going on being’, così come ha le prime sensazioni di essere parte di un’intelligenza che va oltre il suo pensiero e che è fondamentale per la sua sopravvivenza e per il suo benessere”. E’ dunque in gravidanza che inizia a strutturarsi un dialogo in cui gli scambi emotivi si fondano sul doppio registro somatico e psichico. In tal modo Macchia rileva come la dissociazione tra affetti e rappresentazione generata dal trauma si realizzi in una dimensione relazionale, poiché “l’evento o il processo traumatico sono avvenuti a causa, in presenza o per l’assenza di un altro ed è proprio il ruolo dell’altro, dell’analista nell’analisi a giocare una parte fondante per la sua natura, l’entità e le possibili evoluzioni”. Discutendo i processi d’identificazione proiettiva, di rêverie e dell’identificazione con l’aggressore, l’Autore ritiene con Ogden che il compito dell’analista sia di sognare i sogni mai sognati dai pazienti, all’interno di una situazione analitica concepita come il frutto della combinazione degli inconsci di analista e paziente e dal reciproco flusso delle identificazioni proiettive.

I lavori di Macchia e della Busato sono stati poi discussi da Domenico Timpano (Membro ordinario SPI) che ha sottolineato come ambedue gli autori affermino la necessità di riconsiderare la concezione del trauma, presente nella psicoanalisi fin dall’origine con la teoria della seduzione, e gli effetti dell’ambiente sullo sviluppo dell’individuo. Entrambi, pur percorrendo strade diverse, hanno inoltre fatto ricorso al tema della dissociazione e posto l'accento sul depositarsi delle tracce traumatiche nei registri sensoriali del corpo. Tracce che possono trovare una loro rappresentabilità all’interno della “dimensione olografica del transfert” (De Toffoli) se l’analista si dispone in modo tale da provvedere al processo di sintonizzazione emotiva con l’analizzando, quale prerequisito a ogni possibile reintegrazione.

La discussione dei lavori, proseguita con tutti i partecipanti all’incontro, ha dapprima rilevato l’importanza dell’opera di prevenzione da mettere in atto all’interno della rete sociale in caso di gravi situazioni traumatiche che coinvolgono la madre e il bambino. In seguito si è incentrata sulla relazione analitica quale strumento di esperienza delle tracce traumatiche che non hanno avuto accesso alle capacità di rappresentazione.

Nella sessione pomeridiana, coordinata dalla Dr.ssa Alessandra Babore (Ricercatore in Psicologia Dinamica Ud’A, Membro ordinario APA), sono state presentate due relazioni prettamente cliniche che hanno generosamente mostrato il personale modo di lavorare degli autori con pazienti gravemente traumatizzati. Mentre la Dr.ssa Elsa Hein Alocco (Direttore e Didatta APA) ha illustrato e discusso principalmente il processo di “nachträglichkeit” favorito dalla relazione analitica, la Dr.ssa Gabriella Gentile (Membro Ordinario SPI e Psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza) ha evidenziato la necessità da parte dell’analista di entrare in contatto con il proprio dolore per ottenere un reale accesso a quello del paziente traumatizzato. Entrambi i casi hanno illustrato il bisogno da parte del paziente di ripetere all’interno del transfert quegli aspetti traumatici che hanno interrotto e/o sfilacciato la possibilità di entrare in relazione con l’altro, una ripetizione che sottende la speranza di poter finalmente padroneggiare il trauma attraverso la relazione analitica. Al contempo, è stato dato risalto alla faticosa ricerca di sintonizzazione emotiva che l’analista deve compiere con questi pazienti, talvolta tollerando e significando alcune infrazioni al setting (il caffè portato all’analista, sedersi sul lettino, sentirsi cercati dall’analista) come parte del processo di “ricerca e messa alla prova” che serve al paziente per acquisire quella fiducia necessaria a permettere il lavoro di reintegrazione. Le relazioni sono state poi discusse dalla Dr.ssa Barbara Cupello Castagna (Membro Associato SPI, Ordinario AIPPI, Ordinario e Didatta APA, Docente a contratto Ud’A) che ha sottolineato come nella storia dei pazienti traumatizzati si riscontri spesso il fallimento di quella necessaria elaborazione congiunta alla mente materna delle esperienze. Un fallimento che esita nell’impossibilità di elaborare il trauma e nel blocco delle capacità di comunicazione. In tal modo, i pazienti come quelli presentati dalla Hein Alocco e dalla Gentile vivono in una dimensione d’imprigionamento e solitudine, fatta di un duro “relazionarsi col nulla” che pone una sfida alle capacità dell’analista.

Le presentazioni cliniche hanno poi animato un acceso dibattito piacevolmente connotato dalla grande partecipazione di studenti e specializzandi che si sono mostrati particolarmente interessati ai fattori terapeutici della psicoanalisi e al rapporto tra agito e setting.

Dr. David Ventura

venturadd@gmail.com



1 L’impact factor è un indice che misura il numero medio di citazioni ricevute in un particolare anno da articoli pubblicati in una rivista scientifica nei due anni precedenti.

2 Citazione tratta dalla relazione inviata dal Prof. Luigi Solano (Membro Ordinario SPI e Prof. Associato Università “La Sapienza” di Roma), per motivi personali impossibilitato a partecipare all’incontro.

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