La seconda giornata del Convegno affronta il tema della integrazione, non integrazione e disintegrazione . Vengono presentati i lavori della Dr.ssa A. Nicolò, della Dr.ssa L. Caldwell e del Dr. R. Roussillon, moderatore è il Dr. S. Bolognini, discussant la Dr.ssa P. Marion.
Nell’introdurre la giornata Bolognini propone l’opportunità che l’analista, in rapporto ai vari maestri della psicoanalisi che orientano la sua pratica clinica, sia in grado di effettuare identificazioni introiettive molteplici che favoriscano l’integrazione tra vari modelli in quanto ciò costituisce una risorsa che protegge dal rischio di identificazioni sostitutive rispetto al sé.
Apre i lavori la relazione della Dr.ssa Anna Maria Nicolò. Il suo intervento prende le mosse dal lavoro di Winnicott “La paura del crollo” e dall’ipotesi, in questo avanzata, che la paura del crollo che alcuni pazienti presentano, sia in realtà la paura di un crollo già avvenuto. L’autrice introduce il lavoro attraverso la presentazione di un caso clinico, ed è di grande pregio la dialettica tra il materiale clinico e gli aspetto teorici pensati. Il caso è quello di un paziente difficile, di cui si parla in termini di breakdown, inteso come un esordio giovanile che segna il riorganizzarsi dell’identità e la separazione dai primi oggetti parentali, il tutto preceduto da un tentativo di ribellione ed una seria difficoltà nelle prime fasi della vita. L’ingresso all’università del paziente ne blocca la crescita ed inverte il suo sviluppo. Come teorizzato da Winnicott, nel caso presentato, la ricerca difensiva della non esistenza è al fondo della personalità del paziente, una difesa dalla persecuzione e dalla depressione profonda, ma anche ripetizione del pattern traumatico che ha caratterizzato la sua vita. Dopo il primo anno di trattamento, il paziente presenta un lungo, continuativo ed estenuante pianto che sconcerta e confronta in termini di significato, l’analista, che viene letto come la possibilità del paziente di concedersi la regressione che aveva altrimenti sempre evitato, ed il tentativo di ripetere così la primitiva esperienza traumatica di cui è portatore. Nel caso di pazienti che hanno un “Io che osserva” come lo chiama l’autore britannico, questi possono entrare nella regressione e successivamente uscirne; un altro genere di pazienti, come quello presentato nel caso clinico, invece, sono costretti ad agire, “manifestare all’esterno” per vivere qualcosa di cui sono portatori e che non hanno potuto vivere: è così che questi pazienti comunicano all’analista emozioni e vissuti non sperimentati.
Attraverso il caso, la psicosi assume la qualità di una organizzazione difensiva contro il breakdown: la difesa psicotica si caratterizza come un rifugio, un ritiro psichico e fisico; l’organizzazione di personalità del paziente lo rende il cavaliere inesistente di Calvino: una armatura vuota.
Il lavoro di Winnicott sulla paura del crollo allarga il concetto di inconscio che non è più inconscio rimosso ma fa riferimento ad una memoria traumatica immagazzinata. Impingement traumatici da parte dell’ambiente, quando il bambino non è ancora pronto ad affrontarli, creano le condizioni affinché alcuni ricordi abbiano la caratteristica dell’impensabilità. Questi “ricordi” divengono una interferenza per la continuità dell’essere e sono così “catalogati”, congelati in attesa che si apra la possibilità di una trasformazione. Affinché tale trasformazione sia possibile è necessario porre attenzione al funzionamento traumatico dei legami familiari in cui questi pazienti sono immersi, un funzionamento traumatico non inteso come un evento puntuale, bensì come un processo continuativo che può durare tutta una vita. Inoltre vanno tenuti a mente i diversi livelli di rappresentatività di cui ciascuno è portatore (Aulagnier).
La presenza dell’analista e la sua posizione nel setting sono fondamentali per la ripresa della speranza e quindi per la trasformazione; nelle situazioni più fortunate l’analista può pensare, sognare e simbolizzare per sé e per l’altro; è quindi il funzionamento psichico dell’analista ad essere parte integrante del processo.
In questa direzione è una mente umile e curiosa, ci dice la Nicolò, la mente dell’analista capace di dubitare, quella che serve a questi pazienti.
Si passa così al lavoro di Russillon, che fa una presentazione di Winnicott, come lui stesso la definisce, “alla francese”, ovvero integrando nel lavoro del Padre della Psicoanalisi la teorizzazione dell’analista britannico. L’ipotesi su cui si svolge il lavoro è che Winnicott abbia sviluppato delle intuizioni che in Freud sono rimaste tali. Il primo riguarda il ripetere: le esperienze che tendono a ripetersi sono quelle più precoci, ovvero quelle che precedono la comparsa del linguaggio verbale. Freud propone l’idea che la ripetizione sia legata a ciò che non abbiamo integrato, e così la coazione a ripetere si declina in realtà come una coazione ad integrare; l’integrazione è una soggettivazione, il lavoro consta nel passaggio dall’Es all’Io. Il fallimento nel divenire genera un processo definibile come scissione. La scissione per Winnicott è quella descritta nel Compendio di Psicoanalisi (1938), ovvero il ritiro del soggetto dall’esperienza. Il secondo elemento riguarda l’allucinazione ed il suo rapporto con la percezione: se in un primo momento allucinare e percepire sono due processi mutualmente escludentisi, Freud si accorge progressivamente che è possibile allucinare e percepire allo stesso tempo. In Winnicott tale coincidenza viene sviluppata ed esita nella formulazione del “creato-trovato”.Un terzo elemento sviluppato da Winnicott ma intuito da Freud riguarda la funzione dell’oggetto; già Freud in Lutto e melanconia parla non di oggetto perduto, bensì di oggetto deludente, quello che per Winnicott non rispecchierà al soggetto. Centrando il proprio pensiero sull’integrazione, l’analista britannico non ragiona sul singolo soggetto, bensì integra la reazione dell’oggetto che può causare il fallimento del processo integrativo del soggetto esitando in non integrazione o disintegrazione.
Di contro una franca innovazione nel pensiero winnicottiano è quella che riguarda gli autoerotismi, inizialmente considerati come derivati dall’assenza dell’oggetto, vengono ridefiniti come frutto della capacità di essere soli in presenza dell’oggetto, luogo in cui il bambino può appropriarsi dell’esperienza e divenire soggetto. La sopravvivenza di esperienze non integrate, le fanno rimanere sempre potenzialmente riattivabili per la già citata coazione ad integrarsi; rimaste non storicizzare e non elaborate tornano in forma allucinata, come paura del crollo, della perdita dei legami e come vissuto di morte interna. Il ritorno dell’esperienza precedente attacca l’organizzazione psichica che la esclude, non per distruggerla bensì per riorganizzare e trovare un posto per sé: non è uno scopo quindi, bensì, un mezzo per essere integrata.
Un bambino nasce con potenzialità che possono esplicitarsi laddove trovi un ambiente capace di fornire una funzione specchio di integrazione; quando ciò non avviene si creano i presupposti per una delusione narcisistica e vissuti di sofferenza da cui il bambino si protegge ritirando il proprio investimento: non ci sono! Affinché si realizzi una integrazione, ed il bambino si scopra soggetto, deve accadere che l’oggetto sopravviva all’aggressività.
Come sottolineato da Bolognini a chiusura dell’intervento dell’analista francese, il lavoro è una cavalcata teorico descrittiva, una istantanea su come Winnicott viene letto nell’ottica francese, così centrata sulla soggettivazione.
E’ il momento del lavoro della Caldwell “Dalla Psicoanalisi all’essere e al fare”.
Nel suo lavoro descrive il caso di un paziente che la cimenta con intense reazioni affettive quali un crescente senso di negatività, un’antipatia ed un senso di freddezza che la portano a desiderare di allontanarsi dal paziente. La Caldwell fa più volte riferimento ai lavori di Winnicott come strumento utile a comprendere ed utilizzare tali emozioni in seduta. Proprio Winnicott afferma che il controtransfert ha a che vedere con una pressione che può modificare drasticamente l’atteggiamento dell’analista” (Winnicott, 1960: 162). Egli si concentra qui sull’odio che a volte l’analista prova per il paziente e su come capirlo e viverlo nel trattamento. Per Winnicott nel lavoro analitico con gli stati emotivi precoci non esistono mancanze tranne quelle dell’ambiente, perciò l’analista si trova sempre a dover affrontare le proprie mancanze, “che abbastanza stranamente tendono a seguire con ciascun paziente lo schema delle mancanze dell’ambiente verso quel paziente”. Quando sbagliamo con un paziente dobbiamo saper vedere l’errore come qualcosa che il paziente ci ha permesso di fare in un modo particolare così da riportare al presente l’errore originario dell’ambiente. E’ un lavoro molto complesso da svolgere e che si giova dall’aver avuto una buona analisi personale capace non solo di liberare l’analista dalle sue nevrosi o di ridurne gli effetti, ma anche di aumentare “la stabilità del carattere e la maturità della personalità” che è alla base della professionalità dell’analista e della capacità ininterrotta di mantenere un rapporto professionale anche quando siamo sotto attacco. Tutti i terapeuti debbono, attraverso una organizzazione flessibile delle difese, rimanere vulnerabili e essere disponibili a essere usati dai pazienti. È inutile che l’analista costruisca delle difese di tipo professionale contro la capacità del paziente di influenzarlo perché “in questo modo egli si nega l’uso di un organo molto importante di informazione”.
Il caso clinico che la Caldwell riporta ci mostra la difficoltà di condurre un’analisi complessa caratterizzata da odio ed attacchi violenti nei confronti dell’analista. André Green sottolinea come gli atteggiamenti distruttivi possano essere intesi come un tentativo di negare l’esistenza dell’oggetto. “Quante volte, scrive, abbiamo pazienti che direbbero: Ma chi si crede di essere? Lei non esiste. Alla fine alcuni di loro diranno Io non esisto, che è abbastanza vicino alla verità” (p. 30-21). Il lavoro si conclude con una citazione di Lear che osserva quanto: “da un’analisti riuscita deriva la scoperta non di un desiderio nascosto ma di strutture primordiali di motivazione che organizzano l’esperienza di sé e del mondo”.
La forza dell’attaccamento a queste strutture e il coraggio necessario per affrontarle e smontarle non sono mai stati sottostimati da Winnicott nei pazienti e ancora meno negli analisti.
Chiude l’intervento della Dr.ssa Marion, a commento delle tre relazioni presentate, che sottolinea come tutti i lavori parlino non di una adesione ad una scuola, bensì di una attitudine al pensiero creativo; tutte inoltre rendono possibile far vivere il linguaggio di Winnicott, riformulandone il pensiero. L’apprezzamento per il lavoro di Russillon emerge dall’aver sottolineato un cambiamento di prospettiva circa il significato della distruttività e la scoperta della realtà dell’oggetto, un cambiamento di focus operato attraverso lo spostamento di asse sulla qualità della risposta dell’oggetto. Del lavoro della Caldwell sottolinea l’attenzione al lavoro che l’analista fa con la sua mente; negli esempi clinici portati dalla Dr.ssa Nicolò e dall’autrice inglese, rintraccia un filo comune nell’attenzione ai sentimenti di odio e alle resistenze. Concentrandosi sul lavoro della prima la Marion sottolinea come ci sia una proposta di metodologia per il lavoro con i pazienti gravi e come l’analista sia continuamente sollecitato a confrontarsi con le proprie mancanze. Sottolinea inoltre come il recupero della traccia muta del ricordo traumatico e l’attenzione al doppio asse temporale, siano indice della funzione integrativa della mente dell’analista capace di utilizzare i processi allucinatori come occasioni di incontro con il paziente.
Segue il dibattito con la sala, caratterizzato dal corale apprezzamento per i lavori presentati. Le riflessioni che emergono sono il frutto della creazione di uno spazio potenziale tra la sala ed i relatori, in chiusura di un convegno estremamente ricco e vivo.
La partecipazione al convegno ci ha permesso di riflettere sulle sottili connessioni che costituiscono la tela relazionale dalla quale può nascere una mente e su come l’inconscio della madre sia la prima realtà del bambino che emerge e si sviluppa da una diade intersoggettiva (Winnicott, 1965). Abbiamo potuto ascoltare una attenta e puntuale rivalutazione del ruolo esercitato dalle esperienze, sia pure in rapporto dialettico con fantasia e predisposizioni biologiche, così trasversalmente diffusa nei modelli psicoanalitici contemporanei e che trova conferma negli studi attuali sul cervello. Il convegno ci ha mostrato che esiste una ricca dialettica tra cervello ed esperienza mettendo in luce le possibilità trasformative dell’incontro tra la mente del paziente e la mente dell’analista che ci porta a tutti effetti nella psicoanalisi del futuro.