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Commento di Alberto Sonnino alla Serata Intercentri "Psicoanalisi nel giorno della memoria" (27 gennaio 2017)

La “Giornata della Memoria” che ricorda la liberazione da parte delle truppe sovietiche del campo di sterminio di Auschwitz Birkenau, è occasione per riflettere sugli insegnamenti della storia. Anche la Psicoanalisi, celebrando il giorno, non si sottrae al compito di interrogarsi. Per apprendere.

Così è stato nella “serata intercentri”, organizzata dal CdPR e dal CPdR, che si è svolta il 27 gennaio e nel corso della quale è stato discusso il libro “L’Eco del silenzio, il trauma della Shoah consegnato alle generazioni future”, di Giorgio Caviglia e Maria Bove, edito da Giuntina, che affronta il problema della trasmissione transgenerazionale da un vertice psicoanalitico e soprattutto attraverso gli studi sull’attaccamento con campioni clinici di sopravvissuti e dei loro discendenti, messi a confronto con gruppi di controllo.

Dopo la proiezione dell’intervista a Luciana Nissim Momigliano, sopravvissuta ad Auschwitz, (curata da Paolo Boccara e Pino Riefolo) e dopo aver visto i disegni di Bockelmann delle immagini di bambini deportati, con un commento di Alessandra Balloni che ha ampiamente citato la testimonianza di Primo Levi, è stata presentata una riflessione da me curata sulla Psicoanalisi dopo Auschwitz.

Lo sterminio organizzato con meticolosità scientifica dalla Germania nazista di milioni di Ebrei, oltre che di Rom, Omosessuali, Testimoni di Geova, Oppositori, ha rappresentato uno spartiacque vero e proprio per le teorie psicoanalitiche sul trauma. Dice Bohleber che non è possibile affrontare una riflessione psicoanalitica sulla Shoah con le teorie fino a quel momento disponibili. I nostri strumenti rimangono insufficienti per l’ininfluenza della personalità premorbosa, per l’impossibilità di una vera elaborazione, per l’inevitabilità di una trasmissione alle generazioni successive, per l’assenza di un contesto di ascolto e per la necessità di una dimensione collettiva sociale per accostarsi alla problematica. Il ruolo della realtà fattuale, così importante nella psiche dei sopravvissuti, non può essere lateralizzato per il predominio di una concezione fondata sul conflitto pulsionale o per un approccio che ponga l’intersoggettivismo, o la narratologia, al centro dell’attenzione. Per consentire un’ipotesi di elaborazione del trauma è inevitabile restituire al recupero della storia, della realtà materiale (Freud distingueva la realtà materiale dalla realtà psichica), quella centralità che è necessaria a chi è sopravvissuto ad una tragedia così imponente per sentirsi ascoltato e creduto, essendogli riconosciuto il ruolo di “testimone”. Ecco quindi che riprende un ruolo prezioso il lavoro di Ferenczi, e poi i contributi di Niederland, Laub, Bohleber ed in casa nostra Borgogno, Giaconia e Racalbuto, Bonfiglio, Mangini, Giannitelli e Valeria Egidi Morpurgo (quest’ultima promotrice a Milano insieme ad Anna Ferruta di un’intensa giornata scientifica sullo stesso tema a cui ha partecipato anche Eva Weil).

La riflessione psicoanalitica dopo la Shoah si è dovuta soffermare, oltre che sul ruolo della realtà materiale storica, anche su quello che Yael Danieli nel 1998 ha definito “la Cospirazione del silenzio”, il doppio muro eretto dai sopravvissuti e dalle persone a loro vicine, per cui “nulla veniva detto e nulla veniva chiesto”, per non intrudere e riaprire una ferita inimmaginabile, per una “inavvicinabilità all’area traumatica”, come nel 2000 teorizzava Correale. Ma non solo per non ferire di nuovo il sopravvissuto un muro così imponente, sebbene invisibile, è stato eretto: è il “contesto di ascolto” che si è dovuto proteggere dalla possibilità di essere invasi da quella sofferenza che paralizza e che schiaccia nell’impotenza. Così come nella situazione analitica l’analista deve sopportare ferite narcisistiche e senso di impotenza, quando travolto dal racconto di vicende terribilmente traumatiche, in virtù di reazioni di controtransfert, ma anche per il peso delle controidentificazioni proiettive, analogamente la collettività per oltre mezzo secolo non ha raccolto agevolmente la testimonianza. Pensiamo che il primo viaggio della memoria organizzato dalla Comunità Ebraica di Roma per i suoi appartenenti si è realizzato nel 2008 ed il primo incontro ufficiale in Sinagoga tra i sopravvissuti ed i propri correligionari è avvenuto nel 2010. Un solo interrogativo per chiarire ed esemplificare la questione del silenzio che si è protratto per cinquanta anni, tanto è stato lungo il tempo di latenza, tranne poche eccezioni, prima che iniziassero a moltiplicarsi le testimonianze dei sopravvissuti: cosa saremmo stati in grado di rispondere a Settimio Calò che, uscito di casa la mattina del 16 ottobre 1943, al suo ritorno non trova più la moglie con i suoi nove figli, come ricorda una lapide al Ghetto di Roma?

I sopravvissuti hanno avuto necessità che passasse così tanto tempo prima di iniziare a raccontare, per il bisogno di conferma, attraverso la creazione di una seconda e di una terza generazione, mettendo al mondo figli e nipoti, delle proprie capacità libidiche, per bonificare con la vita gli aspetti mortiferi che la Shoah ha inevitabilmente depositato nel proprio mondo interno.

Infine la riflessione sulla trasmissione di nuclei traumatici non elaborati ai figli ed ai nipoti, intesa come una sorta di stigma che crea malattia di cui non ci si può liberare, come un fardello non più solo proprio, ma che condiziona anche la vita dei propri figli. Su questo si è dilungata Dina Wardi, ricorrendo all’efficace definizione di “Candele della Memoria”, i figli a cui senza scampo viene affidato il compito di ricordare, sul corpo e nella psiche, poi Abraham e Torok, Faimberg, Kaes, i nostri Claudio Neri e Anna Nicolò. Ma tutti questi preziosi ed illuminanti contributi, che ci hanno permesso di chiarire sottili meccanismi di funzionamento della mente, si sono basati, come sempre avviene nella ricerca psicoanalitica, su singoli casi, difficilmente sottoponibili a verifiche e misurazioni.

Il libro di Caviglia e Bove ha invece il pregio di permetterci di allargare il nostro sguardo, prendendo in considerazione studi con campioni più o meno ampi, studiati secondo parametri misurabili, sebbene basati sulla teoria dell’attaccamento, e con gruppi di controllo, permettendoci di riflettere sul fatto che se ci sono tante conferme sulla trasmissione dai sopravvissuti alla Shoah alle generazioni successive di nuclei patologici (alterazioni nel genoma dei figli dei siti preposti alla sintesi di proteine necessarie per affrontare lo stress che vengono metilati, minore produzione di cortisolo, ormone prodotto nelle strategie di “attacco e fuga”), altri studi rilevano, forse sorprendentemente, la loro profonda capacità genitoriale, espressa e trasmessa, così da proteggere i propri figli ed i figli dei figli, permettendoci di rileggere la “Cospirazione del silenzio” come indicativa di una profonda capacità di amore e di tutela della progenie.

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