Si è aperta con le immagini in bianco e nero dei pazienti del manicomio di Gorizia e di Trieste la giornata nazionale che la SPI ha dedicato alla legge 180.
Anna Maria Nicolò ha introdotto l'evento come un "pezzo" di quella che avrebbe voluto essere un'occasione unitaria di riflessione sulla legge 180 a quaranta anni dalla sua applicazione.
Il 29 settembre 2018 si è infatti svolta anche Milano, sullo stesso tema, una giornata di approfondimento. I due convegni paralleli hanno sottolineato l'importanza che ha per la SPI la cura della malattia mentale, con un dialogo sempre teso a confrontarsi con la cura delle patologie gravi.
In apertura della prima sessione Fabio Castriota, chairman della mattinata, ha sottolineato l'importante rapporto tra la SPI col mondo delle istituzioni in relazione alla riflessione sulla 180 e su Basaglia. Questo incontro, ha affermato, non vuole essere uno sguardo nostalgico ma una ricostruzione, al suo esordio, del rapporto tra psichiatria e psicoanalisi.
Castriota pone interrogativi: Basaglia è stato rappresentante di se stesso in un contesto che gli ha consentito di emergere? Basaglia era espressione di un momento? Sarebbe stato ciò che è stato anche prima o dopo quel momento storico?
È Cono Aldo Barnà, con la sua relazione, a porre l’attenzione sulla distinzione tra la legge 180 e l'opera complessiva di Basaglia nelle sue diverse anime – quella politica, culturale e scientifica – evidenziando la conflittualità insorta, già dai sui inizi, nel pensiero di Basaglia con la psicoanalisi.
Pur restando la 180 la prima e unica legge quadro capace di rendere l'Italia il paese con una legislazione "più rispettosa dei diritti delle persone con disturbi mentali" (OSM); pur restituendo a essa il grande onere di aver combattuto attivamente lo stigma del malato mentale e la sua esclusione sociale, allargando gli spazi della democrazia e restituendo dignità e diritto alle persone fragili; pur avendo rappresentato un avanzamento scientifico e culturale nella concezione della malattia mentale, l'assunto "utopico" di Basaglia, ha evidenziato Barná, ha inesorabilmente escluso il "vertice psicoanalitico" quale espressione di quella "tecnica" considerata frutto di una visione borghese e classista della devianza. Una rinuncia per i "basagliani" e per "psichiatria democratica" ad arricchimenti per l'avanzamento della comprensione e la ricerca nel campo della malattia mentale, su cui psichiatri antistituzionali e psicoanalisti si muovevano con passione e sguardo attento.
Nonostante la difficile applicazione nella gestione della 180 all’interno delle istituzioni stesse da parte di psicoanalisti impegnati sul tema ciò è stato possibile per molti psicoanalisti estendere il "metodo psicoanalitico" alla ricerca di una comprensione migliore dello psichismo collettivo e intersoggettivo con una formazione alle dinamiche di gruppo e alla lettura profonda della sofferenza mentale proprio nei luoghi più espressivi: gruppi, istituzioni, scuole, università, e poi negli SPDC, nei servizi, nelle comunità terapeutiche eccetera.
Seguendo un percorso personale, Alfonso Accursio ha testimoniato il processo di cambiamento delle istituzioni dell'assistenza psichiatrica a Palermo, dagli anni che precedono la 180 ai decenni successivi.
Il suo lavoro nell'ospedale psichiatrico di Palermo, in un momento in cui la sua formazione scientifico culturale si apriva con passione all'influsso basagliano e a psichiatria democratica, si immergeva in una Sicilia che esprimeva un sovrappiù di emarginazione perché era luogo dove non c'era lavoro e si erano create delle sacche di emarginazione.
Il manicomio era la pattumiera sociale dove si metteva tutto ciò che non era produttivo. Non era solo una struttura fatiscente ma lì era anche inesistente l'idea di dignità. Non si poteva non combattere contro il manicomio. "Era un crimine di pace", lo definiva Basaglia.
Per dare l’idea di quanto le strutture fossero insanabili e rotte, Accursio paragona il manicomio a una catena che avrebbe dovuto tenere alcune strutture ma dove ogni anello era aperto e rotto.
La malattia mentale non era solo il manicomio, era un luogo della mente che induceva a scindere da sé gli aspetti malati e psicotici, come se la psicosi potesse essere allontanata da sé.
«…Manicomio e jihadisti, lungi dall’essere scomparsi, sono solo entrati in clandestinità per resistere e sopravvivere meglio in un contesto che si è modificato».
Comincia con un parallelo che inquadra “plasticamente” l’era post strutture manicomiali in Italia, l’intervento di Guelfo Margherita che ha chiuso la prima sessione della giornata sulla 180.
Ucciso nelle sue componenti geografico/architettoniche, economico/sociali e psichiatrico/culturali, afferma Margherita, il manicomio cerca dalla clandestinità nuove alleanze per creare magari nuove culture (psichiatriche, sociali, politiche) in cui far sopravvivere le vecchie invarianti di violenza e paura in un contesto apparentemente più ingentilito.
Il suo è allo stesso tempo un racconto autobiografico, un resoconto scientifico, una ricerca sui linguaggi per raccontare l’esperienza della psicosi, senza diluire il senso della rabbia e del dolore. Il racconto autobiografico, sostiene, «è la scelta emotiva dell'analista (singolo o plurale) di raccontare il suo controtransfert calato nei contesti destabilizzanti dei luoghi della psicosi ed i tentativi per esplorarli e descriverli»
L’invito è a cercare nei paradossi alcune verità nascoste che Margherita ha elencato in quattro punti.
1) Attacco al Pensiero
2) Protezione delle egemonie economico-culturali:
3) Scissione e rimozione dell’esperienza
4) Incapacità per il singolo a reggere, senza protezioni, il peso di un’istituzione senza soccombere
«Psicoanalisi e Servizi Psichiatrici – puntualizza Margherita – sono entrambe entità composite plurali con identità istituzionali stabilizzate; l'una sul piano tecnico-culturale l'altra su quello economico-burocratico. Difficile è ipotizzare se e chi delle due si accolli il compito trasformativo e destabilizzante di Maometto di incamminarsi verso l'immobilità reale o supposta dell'altra, che si propone come una montagna reticente al miracolo. Nella sua totalità il compito si presenta quindi impossibile».
Ma, come entità composite, hanno le capacità, osserva Guelfo Margherita, di fiutare affari economici e culturali e mettersi in grado di farsi intrigare dall'esplorazione. «Quindi flirtare tra loro per la nascita di una speranza. Quando e dove l'incontro è avvenuto (sempre tempestoso ed emozionante) esso è stato felice sia per la psicoanalisi che per i servizi».
Al termine degli interventi della mattinata è emerso come la ricerca di una pensabilità all'esperienza ideologica non sempre ha portato a differenziare l'esperienza psicotica. L'etica di far diventare “normali” i “matti”, nega l'identità psicotica? L’apertura dei cancelli dei manicomi ha posto gli operatori psichiatrici dinanzi alla possibilità di vedere un senso di intrasformabilità e impotenza nel trattamento con le psicosi. Se la psicosi è un modo di stare al mondo, forse l’intervento che si richiede è uno “starci accanto”.
Con la chiusura dei manicomi si parlava intanto di recupero sociale, ma quanto invece di recupero mentale?
All’apertura della seconda sessione dei lavori, il chairman del pomeriggio, Massimo Vigna- Taglianti, ha sottolineato come tutti gli interventi abbiano posto attenzione alla spinta innovatrice della 180 senza trascurare i nodi problematici oggi evidenti nella difficoltà della vita dei pazienti gravi. Un filo sempre in tensione tra la spinta ideativa e l'andamento della cura.
Cosimo Schinaia, con un excursus architettonico-strutturale, è approdato a una riflessione: l'assenza di una coniugazione tra pensiero architettonico e pensiero terapeutico nella storia della psichiatria, ha determinato luoghi anonimi, indeterminati, spesso privi di anima e di capacità contenitiva e socializzante che hanno favorito il mantenimento delle scissioni psichiche anziché la loro integrazione.
Il manicomio era pensato e realizzato per creare distanza e controllo del malato psichico. Questi luoghi isolati (i padiglioni dei manicomi), ha ribadito Schinaia, non permettevano punti di contatto con l'ambiente sociale e la struttura degli spazi fisici non trovava tra malati e curanti la possibilità di un contatto relazionale, emotivo e di integrazione. La stessa scissione psicotica non era agevolata ma anzi mantenuta.
Negli attuali reparti psichiatrici tale scissione è forse meno netta, ma la divisione degli spazi continua a essere implicitamente intesa per proteggere dalla malattia mentale l'equipe curante, «rifugi per ritirarsi dall'incontro faticoso e talvolta insostenibile con la malattia, il dolore, la follia». È la distanza emotiva dal paziente e dalla sua malattia a essere denominatore della neutralità riproposta negli attuali reparti ospedalieri psichiatrici. D'altra parte, la mistificazione dei luoghi di cura con una trasposizione posticcia degli spazi famigliari è, secondo Schinaia, altrettanto pericoloso e fuorviante.
È nel percorso architettonico del monastero che possono essere individuati i «luoghi di accoglienza e di dolcezza dei rapporti umani». Tutti gli spazi del monastero rimandano all'incontro con la varietà dei bisogni individuali e sociali che prelude al ritrovamento di sé e del rapporto interpersonale.
In un vertice psicoanalitico, occuparsi istituzionalmente dei "folli" significa pertanto assolvere a una funzione rianimativa dell'istituzione stessa, garantendo la simbolicità di tutte le operazioni riabilitative e della loro narrabilità, consentendo anche spazi architettonici che ne consentano il contenimento ma anche la comunicabilità, la simbolizzazione e l'emancipazione.
Antonello Correale ha esordito affermando: «Quanto male hanno fatto i basagliani a Basaglia? Basaglia era un uomo inquieto e la sua tristezza diventava energia».
Come in un dialogo con l'uomo Franco Basaglia, Correale ricorda e ripensa a un viaggio nella dimensione esistenziale ed ermeneutica di Basaglia, aldilà dei contributi e dell'influenza che egli ha esercitato sul mondo della psichiatria e del suo impatto su tutto il mondo sociale, italiano e internazionale.
Basaglia cercava un accesso al paziente ma anche a se stesso, una ricerca di autenticità come percezione acuta del proprio esistere e di verità della vita psichica come accesso anche agli elementi di transitorietà e di sospensione. Un percorso verso "O" in senso bioniano o, per dirla con Husserl, «alle cose, alle cose stesse!», un viaggio nell'intimo di noi stessi, che ci espone al rischio dell'inquietudine, dell'incertezza e della precarietà come implicite espressioni dell'esistenza umana.
Per questo, ha ribadito Correale, le malattie mentali, in generale, sono una grande sfida per lo psicoanalista: scommettere in una personale centralità del proprio investimento con il paziente, incontrando una parte profonda di sé. Questo Basaglia lo aveva intuito.
Giuseppe Saraò, con Correale si «sente condotto per mano dentro la dimensione esistenziale» e dipana un tema scottante: come affronta e come ha affrontato la psicoanalisi il tema della cura delle psicopatologie gravi?
La legge 180 ha diviso per anni gli psicoanalisti o, forse, ha contribuito a far emergere una doppia morale nella SPI: da una parte un ristretto numero di operatori che per anni hanno lavorato nei servizi con dedizione e passione, dall’altra la psicoanalisi ufficiale che a lungo ha guardato queste esperienze con sufficienza e distacco. Con una sorta di "pruderie" si leggevano le esperienze in trincea, a contatto con le psicosi, come esperienze di serie B.
Il coraggio di immergersi nella sofferenza di quelle patologie "intrattabili" (disturbi di personalità, borderline, disturbi alimentari, tossicodipendenze eccetera) ha caratterizzato e caratterizza gli operatori che lavorano nel settore. Per anni gli psicoanalisti impegnati in questa utenza, imprendibile con gli strumenti ortodossi della psicoanalisi con la "P" maiuscola, sono forse stati isolati per una difficoltà a guardare, ascoltare e valorizzare una fonte da cui poter attingere nuove conoscenze e proficue opportunità di approfondimento. Forse “Giano bifronte” si affaccia proprio nella mente di quegli psicoanalisti, impegnati nelle istituzioni psichiatriche, che si sporcavano con contesti molto lontani da quelli psicoanalitici.
Per una ricerca di nuovi orizzonti nella cura dei pazienti difficili occorre sconvolgere i capisaldi della psicoanalisi? C'è ancora posto per i vecchi strumenti della psicoanalisi unipersonale? Quali strumenti adottare per sostenere il lavoro degli operatori che si espongono a pazienti cosiddetti "difficili"? Che contenitore adottare per le menti disperse con difese primitive e/o transpersonali? Di quale linguaggio e con quali modelli, senza spostare un vertice psicoanalitico, abbiamo bisogno?
La vera rivoluzione della legge Basaglia è stata soprattutto sul tema della soggettività dei pazienti, delle famiglie, degli operatori: la legge 180 ha imposto al mondo dellapsichiatria di occuparsi di questi pazienti "difficili" con le loro bizzarrie e i loro sintomi senza parole, un'umanità che chiedeva il riscatto della propria soggettività per superare l'impersonalità e l'indegnità di una condizione dei quali Saraò ricorda gli odori e le atmosfere nei reparti psichiatrici.
Passione e buona volontà sembravano poter rappresentare il motore per "uscire fuori" dai manicomi, ma non bastava la passione e la componente etico-politica. Si aveva bisogno di un pensiero psicoanalitico a cui dare senso, significato e risposta al confronto con la realtà psichica e con il dolore mentale dei pazienti; si richiedeva non solo un'organizzazione dei servizi territoriali, ma anche, e soprattutto, formazione agli operatori non attrezzati a una vicinanza emotiva con la psicosi.
Per Paolo Boccara gli psicoanalisti non hanno solo contribuito a portare un "pensiero" nei servizi di salute mentale e nelle istituzioni psichiatriche e a determinarne la loro crescita, ma a loro volta, da queste ultime hanno ricevuto un insegnamento per confermare gli sviluppi della psicoanalisi contemporanea.
Negli anni immediatamente successivi alla legge 180, il lavoro di Boccara, come di tanti altri psicoanalisti che lavoravano nei servizi, prendeva forma come un'esperienza "per sempre", indelebile nelle sue forme evolutive, a dispetto di un futuro che si pensava non avrebbe mai potuto riservare regressioni e battute d'arresto.
Questo mondo di sofferenza era come un banco di prova e le teorie psicoanalitiche sembravano poter fornire un modello teorico di riferimento e tecniche terapeutiche. Sicuramente la psicoanalisi fornì un modello di ascolto, di avvicinamento empatico alle esistenze dolorose di quei pazienti che iniziavano a bussare alle porte dei servizi; un modello, quello psicoanalitico, che dava la possibilità agli operatori di interrogarsi e di interpretare il senso e l’utilità del coinvolgimento emotivo degli operatori nelle situazioni cliniche gravi. Ma fu subito chiaro come fosse difficile curare con l’uso delle parole, ma anche solo “raggiungere” tali tipologie di pazienti con i setting della psicoanalisi. Gli psicoanalisti, nei contesti istituzionali, presero atto di come trattare psicoanaliticamente i disturbi mentali, non fosse propriamente adatto: questi pazienti non collaboravano, con loro non era possibile condividere un processo di appropriazione soggettiva. Gran parte dell’esperienza soggettiva dei pazienti psicotici o borderline, arrivava attraverso l’agire, il comportarsi, l’interazione. L’assenza di un processo di simbolizzazione e quindi di un linguaggio, richiedeva da parte dei curanti un’attenzione altra per raggiungere aree fino ad allora non disponibili della mente. Il percorso verso il cambiamento doveva passare attraverso la relazione e la lettura analitica delle comunicazioni prive di una loro rappresentazione mentale: mettere in rapporto il “pensare” con l’”agire”.
Quanto si potesse considerare “vera psicoanalisi”, questo tipo di approccio ai pazienti gravi, fu fonte di dibattito nella SPI, mentre al centro delle considerazioni veniva posta la funzione dell’analista in rapporto ai bisogni del paziente.
Per Boccara l’esperienza non rappresentata e non simbolizzata è quella che emerge dall’esperienza con i pazienti gravi, un’esperienza “ai confini della pensabilità” per il curante oltre che per il paziente.
In questo la psicoanalisi si è fatta via via promotrice di una rivoluzione, quella della 180, che ha posto per la prima volta il focus sulla sofferenza e sulla continua attenzione alla relazione con il paziente oltre che alla costante disponibilità a seguirlo nei suoi percorsi.