Il Webinar prende l’avvio dai contributi dei due relatori, Stefano Bolognini e Anna Nicolò, pubblicati sul numero monografico 4/19 della Rivista di Psicoanalisi. Partendo da questi articoli si intende sviluppare un dialogo sui cambiamenti delle forme psicopatologiche e sui conseguenti cambiamenti nella tecnica psicoanalitica, e avviare una riflessione su come gli analisti siano cambiati e siano chiamati a cambiare, nonché sui mutamenti del mondo che ci circonda. Elementi, tutti questi, connessi in una rete dinamica di reciproca influenza.
Il Webinar prende l’avvio dai contributi dei due relatori, Stefano Bolognini e Anna Nicolò, pubblicati sul numero monografico 4/19 della Rivista di Psicoanalisi. Partendo da questi articoli si intende sviluppare un dialogo sui cambiamenti delle forme psicopatologiche e sui conseguenti cambiamenti nella tecnica psicoanalitica, e avviare una riflessione su come gli analisti siano cambiati e siano chiamati a cambiare, nonché sui mutamenti del mondo che ci circonda. Elementi, tutti questi, connessi in una rete dinamica di reciproca influenza.
I lavori dei due relatori sono preceduti da un’introduzione di Paola Marion che, citando il celebre articolo di Gaddini (1984) “Se e come sono cambiati i nostri pazienti”, ci conduce al cuore della questione: la continua interazione tra l’individuo, la psicopatologia e le forme attraverso cui essa si esprime, e il contesto sociale e culturale di appartenenza. È lo stesso Gaddini a richiamare la nostra attenzione su queste continue interazioni, sollecitando al “dover fare i conti in primo luogo con come gli psicoanalisti siano cambiati nei confronti dei loro pazienti” (646).
Marion, sintetizzando il cambiamento del mondo in cui viviamo e le condizioni in cui operiamo come psicoanalisti, parla di un senso di continuità che sembra essersi interrotto. Tra le possibili cause cita il fenomeno della globalizzazione, l’uso dei social e della realtà virtuale, l’affermazione delle biotecnologie. A tali profondi mutamenti, che sembrano segnare un passaggio antropologico, sono collegate le situazioni cliniche che incontriamo: persone che manifestano difficoltà o incapacità di contatto con se stesse e con gli altri, spaventate dalla dipendenza e dall’intimità e che, sotto un apparente buon funzionamento sociale, celano un vuoto psichico con cui ci troviamo a confrontarci nella stanza di analisi.
Sono proprio queste diverse forme di espressione del disagio connesse con i cambiamenti epocali del mondo in cui viviamo il filo conduttore che guida la riflessione di Stefano Bolognini.
Il relatore apre il proprio contributo “Nuove forme psicopatologiche in un mondo che cambia: una sfida per la psicoanalisi del XXI secolo” citando il Congresso IPA 2015 tenutosi a Boston intitolato “Psychoanalysis in a changing world”. Titolo tanto “lapidario”, quanto “significativo”.
Grazie all’opportunità di viaggiare e incontrare colleghi di tutto il mondo, Bolognini ha potuto raccogliere molte osservazioni sullo stato dell’arte della psicoanalisi nei diversi Paesi. Il dato più vistoso che ha riscontrato è un calo di trattamenti analitici ad alta frequenza e al contempo una sempre maggiore richiesta di aiuto rivolta proprio agli analisti. Non accontentandosi della spiegazione basata sul fattore economico, l’approfondimento della sua indagine lo porta a considerare una complessità di fattori che vedono l’intrecciarsi di cambiamenti sociali e culturali, cambiamenti di una parte rilevante delle psicopatologie presentate oggi dai nostri pazienti e i conseguenti cambiamenti di tecnica a ciò collegati.
Sottolinea inoltre, come la portata dei cambiamenti socio-culturali è tale da non poter essere rappresentata e contenuta in una mente individuale, ma che essa necessita di un approccio interdisciplinare per comprenderne a fondo la complessità.
Bolognini individua alcuni fattori in gioco che aiutano a delineare il quadro di tali cambiamenti psicopatologici e delle modificazioni tecniche messe in opera dagli analisti. Tra questi: un calo di fiducia negli equivalenti sociali, politici, religiosi e culturali delle figure genitoriali; un diffuso vissuto di relatività e fluidità negli investimenti; un sentimento di onnipotenza trans-individuale indotto da internet; una valorizzazione di assetti narcisistici e ideali da parte dei media e diffusa nella mentalità corrente; lo sdoganamento di fatto dell’uso di sostanze; il distanziamento di parte della psichiatria dalla psicoanalisi; l’assimilazione della psicoanalisi a trattamenti “abbastanza simili” ad altre psicoterapie di minor impegno.
Un elemento di grande rilievo che emerge da questa descrizione è il tema del rifiuto/terrore dell’interdipendenza. Molti pazienti rigettano l’idea di dipendere intensivamente e dichiarativamente da qualcuno. Chiedere aiuto e accettare il vincolo sembra essere l’ostacolo maggiore che impedisce in molti casi, oggi, di accedere a un lavoro analitico continuativo e ad alta frequenza, così come tale fattore sembra impedire la realizzazione di relazioni intime e stabili, basate su reciproca fiducia e investite di valore. In altre parole la psicoanalisi sembra essere evitata esattamente per le ragioni per cui molte persone ne avrebbero bisogno.
Alla luce dei diversi fattori in gioco e delle considerazioni che ne derivano, Bolognini riflette sull’opportunità, in molti casi, di sostenere lunghe fasi preliminari di ri-avvezzamento al contatto e all’intimità, ossia di co-costruire con il paziente la possibilità di avviare un trattamento analitico tradizionale (“costruire il paziente analitico”, Ogden, 1994; Bolognini, 2015; Romano, 2019).
Come psicoanalisti, occorre riconoscere che la psicoanalisi sta cambiando in relazione al mondo che ci circonda e che abbiamo il compito e la possibilità di elaborare questo processo che, nella sua complessità, può contenere non solo rischi di “snaturamento” del nostro metodo e modo di operare, ma anche potenzialità evolutive.
Anna Nicolò, nel suo intervento “Note sul cambiamento della tecnica in psicoanalisi”,inizia la propria riflessione da una domanda che appare cruciale: che cosa induce il cambiamento nel paziente? Uno degli Autori che ha risposto meglio ai suoi interrogativi è stato Winnicott. Molti interventi che egli riportava come efficaci contenevano elementi di spontaneità, imprevedibilità, curiosità e adattamento al paziente. Cita Winnicott (1956, 354): “Un adattamento sufficientemente buono da parte dell’analista produce nel paziente il risultato cercato e cioè un passaggio dal centro operativo del falso al vero Sé. Ora vi è per la prima volta nella vita del paziente un’occasione per l’io di svilupparsi e integrarsi partendo dai suoi vari nuclei […]”. L’intervento analitico deve dunque mirare allo sviluppo del paziente, alle sue potenzialità. Sembra essere inoltre messa in discussione la tecnica come insieme di regole rigide, e sottolineata piuttosto la persona dell’analista e l’esperienza di adattamento e reciprocità, esperienza analoga a quella descritta da Stern (1985) come attunement (consonanza).
Secondo tale prospettiva dunque, lo psicoanalista ha il dovere di porsi l’obiettivo della cura, per il quale non è sufficiente ricostruire le ragioni del sintomo. Così la domanda da porsi sembra nuovamente essere: che cosa produce il cambiamento e la crescita nei nostri pazienti? Nicolò riassume alcune attuali discussioni psicoanalitiche in due punti essenziali: l’espansione dei fatti clinici e la metodologia del cambiamento.
Il primo punto si riferisce all’esistenza di più inconsci con qualità differenti di funzionamento. L’area che Bollas (1987) ha definito come “conosciuto e non pensato”, che già Bion (1974) aveva intuito parlando di idee “sepolte nel futuro”, e che Levine (2013) riferisce a quella parte dell’inconscio composta di elementi “pre” o “proto-psichici”. È ancora Winnicott (1949) che pionieristicamente differenzia due tipi di ricordi, quelli pensabili e quelli impensabili, questi ultimi dovuti a impingement dell’ambiente quando il bambino non è ancora in grado di affrontarli e che possono creare un’interferenza nella continuità dell’essere.
Stiamo parlando di qualcosa che non si è mai costituito e che lascia tracce capaci di produrre deformazioni nel funzionamento della mente e alterazioni nelle strutture di pensiero, forme di memoria che non coinvolgendo parole e immagini sono raggiungibili attraverso altre vie, quali l’uso della persona dell’analista come periscopio, le sue percezioni, i sogni e altri meccanismi per lo più ancora sconosciuti. Le scoperte di Gallese sui neuroni specchio e sulla simulazione incarnata potrebbero considerarsi come possibili spiegazioni di alcuni di questi fenomeni. L’uso della persona dell’analista, utile strumento, può tuttavia aprire a derive pericolose, in quanto possibile strada per un uso soggettivo o proiettivo. Occorre per questo fare un continuo lavoro di spola tra i propri vissuti soggettivi e la dinamica della coppia analitica.
Attraverso l’esposizione di un caso clinico, Nicolò sottolinea la centralità di fornire al paziente la possibilità di fare un’esperienza trasformativa. Le risposte e il modo di operare dell’analista possono dar luogo a una ripetizione del trauma o dare il via a nuova esperienza.
Il Boston Group parla di “momenti di incontro” tra analista e paziente che nascono da modificazioni “dei modi di stare con l’altro”,la reciprocità di cui parlava Winnicott, ciò che Shore definisce un dialogo tra due cervelli destri. Il momento di reciprocità segna l’inizio di una trasformazione che si potrà vivere in una relazione con un oggetto nuovo. L’analista è chiamato a rispondere al ruolo che il paziente gli richiede in virtù del passato che egli porta con sé. Ruolo che potrà evitare, incarnare o al quale potrà rispondere in modo trasformativo. È questo che può diventare un momento di svolta. Ciò comporta che il focus del trattamento si sposti dall’indagine del passato all’intensità del presente, dall’osservazione del paziente all’osservazione della coppia analitica. Altra conseguenza clinica è che debba esistere something more than interpretation. È cambiato per molti analisti il senso dato all’interpretazione, non solo decodificare significati inconsci, ma attivare processi trasformativi.
Altri fattori vanno poi considerati: elementi supportivi, il setting come spazio potenziale, l’attenzione liberamente fluttuante, la capacità di adattamento al paziente.
Quale posto, dunque, per l’interpretazione?
Sono state individuate due aree di funzionamento della seduta: una attiene all’inconscio rimosso, l’altra al “conosciuto non pensato”, all’inconscio non rimosso. Possiamo riferirci a una funzione continuamente interpretante (Nicolò, 2004) che l’analista esercita su di sé e sulla relazione con il paziente come ad una bussola che l’analista usa per non uscire da una posizione analitica e che evita le sue proiezioni. L’interpretazione è allora il momento successivo in cui l’analista si ritira dentro la sua mente. Un secondo momento che permette di consolidare il cambiamento anche a livello simbolico, dopo aver sperimentato l’insight mutativo.
Tutti questi fenomeni ci inducono a riflettere su quanto ciò che avviene nella mente dei due partecipanti alla relazione sia un processo profondo e ancora, per certi versi, oscuro. Esso coinvolge sia l’inconscio di ciascuno dei due, sia una dimensione di condivisione inconscia. Si apre la strada verso nuove comprensioni, verso ciò che Kaes (2015) ha recentemente definito un inconscio ectopico o extratopico.
Le due relazioni stimolano un ricco dibattito in cui si susseguono interrogativi e riflessioni. Proverò a riassumere le diverse sollecitazioni emerse nel dialogo tra i relatori e la sala (virtuale).
Un primo tema portato all’attenzione è quello relativo ai cambiamenti sociali e ai conseguenti cambiamenti nel setting psicoanalitico, in particolare quelli verificatesi in seguito alla pandemia. Ci si chiede se alcune difficoltà a rispettare le norme di sicurezza riguardino la difficoltà a seguire regole che possono apparire autoritarie e super egoiche. Questi fenomeni sembrano riconducibili non solo a dinamiche individuali, ma a meccanismi gruppali e primitivi. La pandemia ha scatenato vissuti di persecutorietà rispetto a un elemento sconosciuto (il virus).
In merito alle analisi in remoto si ricorda la presenza di un interessante dibattito presente su Spiweb (www.spiweb.it/news-esecutivo/nuovo-dibattito-spiweb) e che esse sono oggetto di una riflessione internazionale da prima della pandemia. In questa variazione del setting l’analista deve potenziare gli aspetti interni, acuire i sensi per entrare in contatto con l’altro. Questa modalità di lavoro, che ha mostrato anche rilevanti potenzialità terapeutiche, non appare come una diminuzione dell’analisi, ma un’esperienza diversa (entriamo ad esempio nella casa del paziente) che necessita di un’organizzazione del setting ordinata.
Il riconoscimento da parte della collettività e della comunità scientifica dei grandi cambiamenti di cui si è parlato in questo incontro, implica l’uscita da schemi rassicuranti. Occorre fare un lavoro di revisione interna di questa alterità che può suscitare negli analisti angosce identitarie.
L’idea dell’estensione del metodo ad altri setting quali gruppi, coppie, famiglie, o il lavoro in remoto, ci mostrano che la psicoanalisi è uno strumento che si può adattare e che può operare terapeuticamente in contesti diversi.
La domanda “quanto sono cambiati i nostri pazienti” potrebbe far nascere un altro interrogativo, ossia: “quanto riescono o non riescono a cambiare gli analisti?” Accanto alle capacità di comprensione dobbiamo registrare anche le nostre difficoltà di cambiamento. Questo è uno dei motivi per cui è importante dibattere insieme di questi temi.
Occorre distinguere quali strumenti per quali pazienti. La stessa cura non va bene per tutti, è dunque centrale poter capire quale modalità di trattamento è più indicata per ciascun paziente. Una saldezza metodologica clinica interna favorisce la possibilità di declinare e utilizzare nel modo più opportuno le proprie conoscenze analitiche. Frequente, ad esempio, il verificarsi di analisi a tranches, situazioni in cui i pazienti ritornano per fare altri pezzi di strada. Queste esperienze fanno pensare al concetto di sostenibilità (ciò che è possibile fare) che a sua volta richiama quello di analizzabilità, oggi messo in discussione, in quanto ritenuto dipendente dalla coppia analitica, e non solo dal paziente, come eravamo soliti pensare in passato.
La costruzione del paziente analitico ha a che fare con la costruzione del soggetto. Sembra emergere un paradosso: un intervento può essere analitico al di fuori di un’analisi (in senso tradizionale)? È chiaro che la costruzione del soggetto è un intervento analitico.
Quali cambiamenti allora pensare per la formazione degli analisti? Essa sta già cambiando: accanto a uno studio tradizionale, oggi molto spazio è dato ai filoni di ricerca attuali, quali ad esempio l’Infant Research. La psicoanalisi deve riprendere una posizione nella società, costruendo un dialogo paritario con le istituzioni e con la psichiatria. Così come deve poter avvalersi di contributi provenienti da altre discipline (ad esempio intervisioni con altre categorie professionali), approccio considerato fondamentale per comprendere e affrontare i cambiamenti di cui stiamo parlando
Qual è, dunque, l’essenza del metodo psicoanalitico, il minimo comun denominatore?
La risposta sembra collocarsi nella possibilità di individuare al meglio i bisogni di chi si rivolge a noi e trovare vie e modalità adatte per corrispondere a questi bisogni attraverso le nostre conoscenze. Un assetto di questo tipo ci permette di uscire da una modalità protocollare di risposta. Così come una madre può allattare secondo protocolli e tempi stabiliti o sintonizzandosi su tempi e bisogni del neonato. Una tale disposizione interna, che si realizza in una modalità relazionale e operativa, richiede interdipendenza, senza la quale il bambino non può nutrirsi, e analista e paziente non possono scambiarsi nulla.
Queste riflessioni si traducono, in ambito formativo, nella possibilità di trasmettere, ai giovani colleghi, la sostanza nutritiva e fecondativa dell’esperienza analitica.
L’essenza della psicoanalisi è quindi qualcosa su cui stiamo lavorando, dall’inizio e nel futuro. Lo psicoanalista è un metodologo che con la sua persona facilita l’attivarsi di processi trasformativi, mantenendo la capacità di dubitare e l’umiltà della mente.
Bibliografia
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