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Report di Chiara Benedetti su “Il metodo psicoanalitico oggi. Persistenza, evoluzione o crisi?” (14 novembre 2020)

Si sono conclusi sabato 14 novembre gli incontri scientifici proposti dall’Esecutivo uscente con una giornata dedicata al Metodo psicoanalitico. Il tema proposto, una riflessione sulla persistenza, caducità o crisi del metodo è stato fortemente voluto e sostenuto dal comitato scientifico, come ha sottolineato Alfredo Lombardozzi, tanto più per il momento di grande cambiamento, critico nelle sue polisemantiche accezioni, che ci troviamo a vivere come persone ed analisti.

Si sono conclusi sabato 14 novembre gli incontri scientifici proposti dall’Esecutivo uscente con una giornata dedicata al Metodo psicoanalitico. Il tema proposto, una riflessione sulla persistenza, caducità o crisi del metodo è stato fortemente voluto e sostenuto dal comitato scientifico, come ha sottolineato Alfredo Lombardozzi, tanto più per il momento di grande cambiamento, critico nelle sue polisemantiche accezioni, che ci troviamo a vivere come persone ed analisti.

Due i lavori proposti e poi discussi nella mattinata, entrambi molto densi concettualmente che hanno interrogato, come puntualmente sottolineato dal chair della giornata, Giuseppe Moccia, su cosa definiamo esperienza psicoanalitica, se il metodo sia da intendersi come asse fondante della psicoanalisi, ed il setting possa- debba diversamente essere variabile, ovvero se la psicoanalisi sia lo junktim freudiano. Un altro tema focale, emerso dalla lettura dei lavori quello della soggettività- oggettività.

Passiamo adesso ad una sintetica rassegna dei due lavori presentati dichiarando la “scomodità” e la difficoltà per chi scrive di riferire in merito a due scritti che per significatività, puntualità e rilevanza di quanto proposto, come pure per il carattere intimo, personale che li caratterizza, verrebbe di riprodurre integralmente piuttosto che raccontare. Se infatti Lucio Sarno ci regala due sogni personali per parlarci di metodo, Cono Aldo Barnà ci porta con sé nella mente dell’analista al lavoro.

Seminario sul Metodo è il lavoro con cui Barnà propone un aggiornamento sul metodo, quasi un ritorno ad esso alla luce di cambiamenti e considerazioni congiunturali sui modi di svolgere le analisi. Il problema essenziale, pensando il metodo, è se esso sia un modo di svolgere la psicoanalisi, o piuttosto il protocollo che la definisce. Se lo consideriamo come tale, ne conseguirebbe una accezione unificante tanto le teorie energetiche, quanto quelle emozionaliste, linguistiche ed ermeneutiche.

La psicoanalisi di Barnà è un sapere in divenire, una scienza discreta e pragmatica in relazione dialettica con altre branche del sapere e che si articola, nel tempo, in modelli; tali modelli dovrebbero tendere ad una convergenza o una dialettica creativa all’interno dei riferimenti teorici e tecnici del singolo analista. Questa ricchezza di ciò che è la psicoanalisi, la sua vitalità, comporta delle precise responsabilità per l’analista che deve riuscire ad operare una adeguata sintesi tra modelli e ad applicarla con prudenza, duttilità ed il giusto assetto affettivo nella presenza, nell’ascolto e nel coinvolgimento.

L’assetto metodologico proposto muove dal riconoscimento di alcune invariati, prima tra tutte la concezione di “oggetto” della psicoanalisi. Si tratta per la verità di due oggetti, quello dello psicoanalista e quello del paziente, reciproci ed interagenti, che si sostanziano come prodotto della relazione analitica; la proposta dell’analista ed il portato del paziente si integrano nelle vicende del transfert e nello stile di ogni analisi. Il Transfert come nuova possibilità quindi, ma anche prodotto della situazione analitica. C’è poi la relazione, che si costituisce ben oltre il ruolo del setting e della tecnica adottati. Si tratta di un rapporto orientato dall’andamento regressivo del transfert in cui produzione onirica, associativa e metaforica saranno il testo dell’analisi. È all’interno del rapporto che si costituiranno elaborazioni e trasformazioni del vissuto del paziente, come pure verranno costruite nuove coniugazioni di significato. È attraverso la regressione che la memoria implicita ottiene dal lavoro analitico una nuova strutturazione verbale più coerente e relazionale, una regressione prodotta da una doppia asimmetria funzionale del setting. Per doppia asimmetria Barnà intende una prima precostituita rispetto all’incontro che viene da elementi di cultura del gruppo, dai modelli di sofferenza e cura, come dell’allevamento e della formazione, ed una seconda che è riconoscibile nella collocazione corporea dei membri del rapporto.

pietà

Le altre componenti del setting e del metodo hanno la funzione di confermare l’asimmetria e contenere la regressione.

In questa ottica Barnà ritiene transitori tanto la definizione dei fattori terapeutici quanto degli elementi di tecnica.

Dell’assetto affettivo e operativo presentatoci da Barnà, fa poi parte “il monitor” una funzione mentale dell’analista, sviluppatasi nel corso della formazione del singolo e attraverso l’esperienza clinica, una attitudine mentale che oscilla tra narcisismo ed una buona disponibilità, che assume la forma di un monitor mentale dei parametri utili alla lettura in continuo delle condizioni e dell’andamento della relazione analitica. Tale funzione viene attivata da una parziale dissociazione mentale rispetto all’impegno affettivo reciproco e consente di processare nella mente dell’analista gli elementi significativi della seduta, segnalandone prevalenze, pericoli, urgenze ed emergenze. È dalla responsività e dall’ascolto degli elementi visibili nel monitor che l’analista regola i propri interventi, che in caso di andamento problematico possono arrivare ad operazioni di salvaguardia dei parametri formali: contratto, setting, ri-contestualizzazione, azione diretta cosciente. Sono i tracciati della monitorizzazione che forniscono nel tempo extra analitico gli elementi per ripensare la seduta, supervisionare il lavoro svolto, ripensare teoricamente il materiale emerso.

Nell’incontro analitico vengono attivati molti stati della mente e questa attivazione a più livelli consente di ricreare, attraverso la sintonizzazione, “allineamenti” significativi; l’impiego del “monitor” consentirebbe di ricercarli in termini metodici. Riconsiderando quindi il metodo, alla luce di quanto detto, Barnà propone alcune riflessioni circa l’uso del linguaggio in psicoanalisi, utilizzabile non soltanto per trasmettere significati e chiarire situazioni, quanto per evocare stati della mente; l’interpretazione quindi intesa come fattore terapeutico specifico per ciò che attiva, la “pensabilità”.

È in tale prospettiva che il fattore terapeutico ultimo viene proposto essere il costruire e accrescere lo spazio per la simbolizzazione.

      

Quel che resta del metodo psicoanalitico (ai tempi del Coronavirus): elogio della Caducità, è il lavoro che presenta Sarno. Il vissuto dell’autore rispetto al metodo psicoanalitico ci viene raccontato attraverso due sogni. Nel primo, risalente ai tempi della fine analisi, lo strumento analitico risultava insicuro per la scarsa confidenza del guidatore con l’impegnativo mezzo. Nel secondo invece, il mezzo, potente e collaudato, viene bloccato dalla presenza di macchine non altrettanto prestanti che ne ostruiscono il movimento, tanto che il guidatore è costretto a scendere ed affidarsi non più all’auto, ma a sé. È la crisi della psicoanalisi quella rappresentata. È da tempo che questo sentimento lo abita, ci racconta Sarno, e l’emergenza Covid, contingenza che ha sollecitato una ulteriore riflessione sul metodo, ha esclusivamente reso evidenti crepe già presenti. Si riferisce a tutti quegli elementi, psicopatologici, clinici, funzionali e relazionali che mettono in discussione la possibilità di adattarsi del paziente al metodo- setting.

Nel corso del lavoro l’autore pone la nostra attenzione sul rischio che il legame con il setting sia per gli analisti prossimo al culto conservativo del collezionista per gli oggetti preziosi, ovvero destinato a non prendere vita. Propone inoltre l’origine del setting come messa in opera di una strategia difensiva piuttosto che come basato su un assioma teorico metodologico. È attraverso l’esperienza affettiva condivisa che si generano le trasformazioni terapeutiche, l’oggetto sintomatico con cui si misura l’analista è sempre più ectopico nelle sue manifestazioni e si sottrae ad una sua identificazione, ad una sua traduzione ed elaborazione analitica. Questa variabilità comporta, secondo Sarno, che l’analista debba sviluppare capacità di ascolto differenziate che siano iscritte in una cornice che comprenda: teoria del funzionamento della mente, dei meccanismi di difesa e dell’inconscio; una teoria dell’eziopatogenesi; teoria della relazione clinica che includa teoria del transfert e del contro transfert, teoria dell’interpretazione. L’esercizio metodologico della funzione analitica inoltre implica una modalità specifica di ascolto ed elaborazione dell’esperienza del paziente assieme alla funzione del pensare.

Ravvisa l’autore come in questo tempo, sia necessario dare una identità più estesa al metodo psicoanalitico, al suo esercizio, per non doverla alterare. Riflettendo circa il setting, Sarno sottolinea come non sono le condizioni prossemiche dello stesso, ad esempio, a determinare le possibilità di investimento transferale; il transfert è infatti universale ed è l’analista che se è un bravo Acchiappa Transfert deve essere in grado di individuarlo nelle sue manifestazioni pulviscolari, rifratte. Il problema è cosa farne, prosegue, ovvero quando e se interpretarlo. Se si modifica il setting, infatti, deve modificarsi anche l’uso degli strumenti, ma non bisogna assolutamente rinunciare ad essi. Come il setting, anche i concetti di acting e resistenza devono subire una riconsiderazione, ed anche in questo caso, il Covid, ci ha dato una buona possibilità di farlo. È fondamentale che il metodo analitico possa essere mantenuto come costante in quadri di riferimento variabili, aggiunge Sarno, e la congiuntura attuale potrà rendere possibile un passaggio evolutivo in questo senso, quello che definisce un “cambiamento catastrofico” del metodo.

Oltre alle considerazioni sul setting, è il tempo e la sua funzione per e nell’analisi ad essere discussa nel lavoro. Il tempo, nella relazione e nella sua estensione rappresenta una funzione del senso da dare al percorso di cura; ed il senso rintracciato, esperito e condiviso che conferisce realtà agli oggetti analitici. Tale esperienza condivisa garantisce il piacere dell’esperienza analitica.

Alla lettura dei lavori segue il dibattito che si sviluppa nella direzione di apportare chiarificazioni al pensiero dei relatori, ma anche di aprire effettivamente uno spazio di pensiero nel merito di quanto proposto. Non ci sorprenderemmo se il nuovo esecutivo volesse riprendere e strutturare una riflessione in tal senso.

Si ha modo, attraverso le domande poste a Barnà, di tornare sul Monitor, sulla centralità della regressione e su come eventuali difficoltà del paziente ad accettare la regressione non necessiti di variazioni del setting, ma di un aggiustamento empatico proprio attraverso lo strumento proposto. Ed ancora sul linguaggio e di come si debba ricreare una intimità ottimale, propria del nostro setting, nella capacità dialogica, una necessità sostiene il relatore, non legata alla esperienza del Covid, ma continuamente caratterizzante l’essere sociale. Altro elemento che ritorna nel dibattito è il tema della dissociazione dell’analista: continua e funzionale, viene specificato, una via bidirezionale tra immersione e controllo.

Attraverso le domande poste a Sarno emerge il suo pensare la pandemia come un evento traumatico specifico, che richiede di lavorare per poterne sviluppare la possibilità evolutiva. Si propone poi una discussione sulla sensorialità: se per alcuni si registra una perdita di elementi sensoriali nella modalità da remoto, l’autore sottolinea come si vengano a trovare ora in primo piano dei fattori che nel setting originario restavano sullo sfondo, sino a sottolineare l’emergere di valenze transferali prima nascoste. Non si registra una perdita di identità della psicoanalisi, ci invita a notare Sarno, e più profonda ed estesa sarà stata l’analisi personale, tanto più l’identità dell’analista l’avrà reso capace, anche a fronte di cambiamenti inaspettati.

Ed è nel clima dei vari interventi, nella scelta delle varie considerazioni proposte che si sviluppa la sensazione condivisa, esplicitata da Lombardozzi, che in tempo di crisi, momento di crescita e trasformativo, ci stiamo prendendo cura del nostro metodo e riscoprendone la fertilità. In una situazione di apocalisse psicopatologica e culturale, mettiamo le basi culturali- analitiche per farle fronte.

Per i Video della giornata clicca QUI

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