Lunedì, Maggio 05, 2025

Lo psicoanalista (non) va alla guerra. Dinamiche della dimensione della tregua

Giuseppe Riefolo

 “le persone sono felici di interagire tra loro”

(Matthew Rabin, 1993)

Lo scorso giovedì 10 aprile c’è stato un seminario presso il CdPR a via Panama sul tema delle “dinamiche della tregua” discusso con Mariaclotilde Colucci e David Ventura. Il seminario, per me è stato interessante ed utile nel senso che mi ha permesso di riflettere su cosa uno psicoanalista possa suggerire – in quanto psicoanalista – e cogliere da un tema così urgente soprattutto negli ultimi tempi. La prima posizione, che ritengo uno psicoanalista debba assumere, penso sia la sospensione della propria dimensione sociale evitando di porsi in una posizione di appartenenza e di giudizio politico rispetto alle vicende sociali. Ovvio che (particolarmente…) un analista appartiene al mondo e, quindi, nella sua posizione di analista non può escludere la sua appartenenza sociale. Ma questa partecipazione, deve a mio parere essere un elemento del setting (Bleger, 1967) e non può diventare un elemento processuale perché altererebbe in modo violento il processo analitico. Quindi: gli eventi politici e sociali esistono e devono essere considerati, ma devono essere tenuti rigorosamente come elementi di setting che devono permettere il processo evitando di essere elementi discriminanti del processo. Pertanto, uno dei primi elementi che mi ha sollecitato alla riflessione sulle dinamiche della tregua è soprattutto il sostanziale e inopportuno (a mio parere…) dibattito a cui anche gli psicoanalisti partecipano sulle ragioni e giudizi sui conflitti bellici che ci riguardano negli ultimi tempi. In questi dialoghi ritengo che un analista debba introdurre una posizione di sana dissociazione rispetto al suo ruolo precisando sempre che la dimensione psicoanalitica non contempla giudizi o schieramenti rispetto agli eventi che, per un analista, si riducono rigorosamente agli eventi della stanza di analisi.

Pertanto, in estrema sintesi, la mia riflessione sulla “TREGUA” parte dalla struttura della seduta analitica dove due estranei si incontrano per necessità, e dove ciascuno dei due se non fosse “costretto” dalle urgenze portate dal paziente per la propria vita, eviterebbe volentieri quell’incontro, Ne deriva che il motore potente di quello che possiamo chiamare “TREGUA” è rappresentato dalla condivisione fisica di uno stesso spazio dove i due sconosciuti proveranno per necessità a trovare il miglior modo per “sopravvivere” (rinvio al film “Il viaggio”, The Journey, di Nick Hamm, 2017). La tregua, da un punto di vista analitico non riguarda i contenuti, dove cercare più o meno un accordo, ma è rappresentata dalla necessità (prima che opportunità…) che due sconosciuti, lasciati in uno stesso spazio, dovranno per forza trovare un modo creativo (a meno che non si distruggano a vicenda, ma questo nell’incontro analitico non è contemplato finché nessuno dei due abbandona la stanza…) per “sopravvivere”.

In questa linea nei giorni scorsi mi hanno molto colpito alcune foto che sono girate sui media degli incontri fortuiti che i leader coinvolti nel conflitto Russo-Ucraino hanno avuto durante i funerali del Papa. Il contesto in cui si sono incontrati era sicuramente insolito e informale rispetto alle regole solite e gli atteggiamenti dei protagonisti risultavano visibilmente meno organizzati e più affabili. L’urgenza e la necessità di trovare soluzioni opportune, a mio parere, emerge estremamente evidente dai contesti in cui tali incontri sono avvenuti (sedie messe in un grande salone, mentre qualche prelato si muove sullo sfondo. Oppure il gruppo di leaders che dibattono accanitamente come un gruppo di conoscenti che propone le proprie ragioni all’altro e ci si trova in cerchio persino appoggiando il braccio sulla spalla del vicino…). Ho pensato che queste immagini rappresentassero esattamente ciò che provo a suggerire come “dinamiche della tregua”. Mi ha colpito che lo stesso Zelensky abbia, indicato quella occasione come "il miglior incontro che abbiamo mai avuto".

Riporto in sintesi alcune premesse del seminario a cui aggiungo le due foto che a mio parere dicono chiaramente quanto provo a suggerire sulla TREGUA come dispositivo dinamico e creativo.

Proposta

Configurazione centrale: nella stanza di analisi si incontrano due persone sostanzialmente estranee che farebbero sicuramente a meno di quell’incontro se, ciascuno per propri motivi, non ne fosse costretto[1].

Tesi centrale: La (sufficiente) frustrazione per questo incontro attiverà un (sufficiente) processo dissociativo[2] finalizzato  a recuperare e curare la continuità dello Stato del Sé dei soggetti in campo. La continuità dello stato del Sé potrà essere mantenuta attraverso la continua modulazione di soluzioni dissociative restaurative e creative (Riefolo, 2024; 2025). Propongo di riflettere su come, in estrema sintesi, la coesistenza in uno stesso luogo di due o più persone, fra loro sostanzialmente estranee determini una dimensione di disagio soggettivo che costringe necessariamente i soggetti in campo a trovare – sia nella dimensione soggettiva che relazionale – soluzioni che ne permettano la sopravvivenza fisica e psichica. Chiamo TREGUA questo spazio di incontro concreto/relazionale dove soggetti fra loro estranei o persino in conflitto accettano di incontrarsi. A differenza di quanto può accadere nei rapporti sociali, non è necessario un accordo preliminare sui contenuti, ma l’accordo deve essere solo sul progetto di incontrare un estraneo. Ovvero: perché si attivi quello che possiamo chiamare il “processo di tregua” è necessaria solo una condivisione implicita che è la fiducia in una organizzazione più complessa del Sé capace di ripristinare una continuità dello stato del Sé a seguito di inattese esperienze di frustrazione. Cerco di proporre come l’incontro analitico – sin dal semplice incontro concreto fra due soggetti - rappresenti la dimensione della TREGUA.

Tesi correlate: Il codice della tregua, quindi, è semplicemente uno spazio fisico, condiviso, finalizzato ad accogliere soggetti che, comunque, si dispongono ad interagire fra loro. Esistono poi un codice della guerra ed un codice della pace. Questi due codici sono incompatibili. Il primo si fonda su modalità simmetriche e di generalizzazione, mentre il secondo su modalità asimmetriche e mantiene le configurazioni, circoscritte e particolari, in dialogo fra loro. Propongo che nel codice della guerra sia inutile cercare le ragioni dell’una o dell’altra parte in conflitto: entrambe hanno ragione e si scontrano perché si muovono ciascuna secondo un proprio codice. Le differenze e le diverse ragioni possono essere valutate solo se ci si muove nel codice della pace, mentre il codice della guerra è solo simmetrico e non tollera confronti. La tregua non è semplicemente una pausa, ma è una operazione concreta con propri codici. E’ finalizzata a far incontrare concretamente, per un tempo limitato, un registro processuale in un contesto simmetrico di causa-effetto. Significa che la tregua, sul piano psicoanalitico, possa essere considerata la condizione che permette il cambio del registro comunicativo che poi si realizza attraverso il transfert, l’identificazione, l’empatia, gli enactment, ecc. Può apparire ovvio che prima della relazione ci debba essere l’incontro! E’ ovvio! Ma forse l’incontro non è solo una occasione inevitabile ed ovvia, ma che abbia proprie dinamiche interne ed è di questo che cerco di occuparmi. Se riusciamo ad individuare dinamiche specifiche, la tregua/incontro non è solo un ovvio transito, ma può essere un obiettivo in sé.

La tregua, attraverso l’incontro, impone la mobilizzazione del blocco traumatico o psicotico e permette il cambio del registro comunicativo che ogni analista è chiamato ad introdurre soprattutto nelle situazioni agite più violente. A livelli molto regrediti il conflitto non è interpretabile, ma va rintracciato e accolto nel setting (Bleger, 1967) che suggerisco come luogo della tregua. La tregua/setting ha sue precise dinamiche e potenzialità preliminari e propedeutiche al processo terapeutico. Negli esempi clinici che presenteròil progetto, prima che di “terapia”, è quello di procurarsi il semplice luogo dell’incontro. Se spostiamo il vertice su fenomeni sociali anche drammatici, provo a suggerire che finché le fazioni in guerra fra loro si mantengono all’interno del codice della guerra le atrocità si equivalgono. Ovvio che mi rendo conto delle differenze concrete e delle diverse ragioni, ma in questa nota provo a seguire una scomoda ma necessaria posizione analitica dove “gli argomenti logici sono privi di efficacia contro gli interessi affettivi” (Freud, 1915, 135).

Il trauma, la guerra, la stanza

Quindi, “la domanda che ci si deve porre è perché siamo tutti prigionieri all’interno di tale sfera già da 45 anni?” (Grossman, 2012, 3). Peraltro, è ovvio che prima o poi quello che gli analisti potrebbero chiamare “processo di effettività” (Bion, 1962) condurrà naturalmente (ovvio: con alti costi umani e un decorso contrastato…) alla composizione dei conflitti. Effettività per gli analisti è la fiducia (Neri: fede?) che, indipendentemente dai narcisismi dei soggetti in gioco, i processi procedono comunque verso integrazioni evolutive, non perché i soggetti lo decidano, ma perché, nei tempi lunghi, è più conveniente per la vita dei soggetti (Riefolo, 2003). Ovvero: prima o poi le guerre finiscono e ci si chiederà: perché sono dovute morire tante persone e ci sia stata tanta distruzione? E’ quello che intuisce David Grossman in un articolo su La Repubblica del novembre 2006 nonostante gli fosse appena morto il figlio nella guerra tra Israele e Libano. Grossman riconosce la stupidità di quella guerra e del muro che Israele ha eretto per difendersi dagli insediamenti palestinesi: “che bisogno c’è di quel muro se tanto tutti sappiamo che prima o poi Palestinesi ed Israeliani vivranno insieme nella stessa terra?”. La nostra fede (squisitamente di ordine psicoanalitico…) suggerirebbe che, prima o poi, prevale l’integrazione e le risposte somatiche, agite e simmetriche, lasceranno posto a risposte più complesse che prendono in considerazione l’esistenza necessaria per la nostra vita di un altro soggetto. Sappiamo che si tratta di due ordini di risposte, evolutivamente differenti, comunque sempre attive nei nostri comportamenti e che rispondono comunque alle logiche della sopravvivenza. Se si leggesse il trauma, quindi, secondo l’ordine della logica, è impossibile trovarne una ragione, perché il trauma per definizione non ha un senso, ma solo una giustificazione meccanica: accade e rimane un fatto concreto che mette in pericolo la nostra vita. Quindi, Israeliani e Palestinesi “hanno le loro proprie giustificazioni per ciò che stanno facendo, entrambi sentono di avere ragione, ma per l’osservatore esterno, tutto ciò appare una follia (Grossman, 2012, 3).

Dinamiche specifiche della tregua

Partiamo, dunque, dall’assunto che la tregua non sia solo un luogo di transito ma abbia dinamiche specifiche, distinte e preliminari alle posizioni della guerra e della pace, ovvero che ci sia una stanza dove due sconosciuti si incontrano. Le dinamiche della tregua possono essere colte in alcuni processi di ordine biologico, relazionale e sociale e rappresenterebbero una irregolarità (quindi: una sorpresa[3]) rispetto alla automatica attesa di un esito. La base su cui queste evidenze si fondano è la convinzione – a mio parere squisitamente psicoanalitica – che i soggetti – alcune volte nonostante drammatiche evidenze - coltivano necessariamente e comunque potenzialità vitali e che la dimensione relazionale sia un potente dispositivo validante e poietico di tali potenzialità

 Partirei da alcune considerazioni che Aron (2018, 200) propone cogliendole persino nella istituzione psicoanalitica che “ha una lunga storia di scissioni e di scismi tra scuole di pensiero”. In sintesi, Aron propone che in situazioni di impossibilità di scambio (noi diremmo: la guerra), bisogna affidarsi ad alcune possibilità che vanno oltre i contenuti e si organizzano su processi di fondo che riguardano la coesistenza concreta delle fazioni in conflitto. E’ la tesi che tento di proporre. Un primo dispositivo è il suggerimento che coglie da Bach (2016) della “chimerizzazione” . Una seconda dinamica è descritta come “risposte corrispondenti marcate” (Gergeley e Watson (1996). Infine l’importanza di intervenire sul contesto prima che verso l’interlocutore in conflitto ponendosi in una posizione di positiva ambivalenza. Un altro dispositivo è quello che gli economisti chiamiamo Propensione al dono

1. Chimerizzazione.

La “chimerizzazione” Bach la media da un processo immunitario ben noto, colto da un noto chirurgo dei trapianti,Thomas Starzl, che, circa 20 anni fa fece una scoperta interessante[4]. Aveva riunito molti dei suoi ex pazienti, tra cui alcuni operati all'inizio degli anni Sessanta. Venne a scoprire che alcuni di loro avevano smesso da tempo di assumere i farmaci immunosoppressori, ma stavano ancora bene. Starzl analizzò questi pazienti e scoprì che in vari tessuti e nel sangue erano presenti cellule estranee di donatori. Per Starzl, queste cellule condivise sono la chiave della tolleranza, ovvero dell'accettazione dell'innesto da parte dell'ospite. La sua ipotesi, in sostanza, è che l'organismo venga a patti con “l'altro” affrontandolo in modo incrementale, arrivando a considerare alcune cellule circolanti del donatore come “Sé” e aprendo la strada a un'accettazione su scala più ampia. Bach ribadisce comunque che, sul piano analitico, la sola condizione necessaria perché si attivi il processo di chimerizzazione sia la sostanziale fiducia di almeno uno dei partecipanti nelle potenzialità dell’incontro: “Non sottolineerò mai abbastanza quanto sia importante per l'analista fidarsi o diventare capace di fidarsi della diade analitica” (p.13). 

2. Rispecchiamento imperfetto

Un secondo dispositivo Aron lo coglie da Gergeley e Watson (1996) e che chiama delle “risposte corrispondenti marcate”, dove il rispecchiamento dei genitori non è come un vero e proprio specchio, ma piuttosto rispecchia con una differenza. È vicino all'esperienza affettiva del bambino, ma non è lo stesso, ed è proprio in questa sua comunanza e allo stesso tempo differenza che viene recepito come una risposta marcata. Da Winnicott in poi gli psicoanalisti conoscono bene questo dispositivo. Inoltre, si tratta di sostenere le felici potenzialità creative della Nachträglichkeit (Freud, 1914), o dell’Apre-coup, o della felice occasione creativa dell’errore (Janet, 1889; Levenson 2006; Gilhoney 2019; Riefolo, 2022).

      3. Funzione del contesto

Per quanto riguarda l’importanza del contesto, Aron lo media in ambito filosofico da Fisch (1997), il quale parla di posizioni individuali che si sostengono solo in sintonia con il “contesto”. Quindi i cambiamenti possono accadere se si modifica il contesto, mentre non ci possono essere cambiamenti se, mantenendo il contesto, si chiede ai soggetti di cambiare posizione. Gli interventi esclusi dal contesto sono violenti e possono solo attivare rese o prevalenze di posizioni su altre. In ambito delle differenti posizioni sociali delle guerre, o delle posizioni individuali di soggetti fra loro sconosciuti o in conflitto, o per le posizioni teoriche che possono riguardare persino la psicoanalisi, i cambiamenti del contesto sono importanti. Aron, comunque, tiene a precisare che “per diventare così ambivalenti, tuttavia, dobbiamo avere sufficiente "fiducia" nei critici esterni. Spesso questo avviene nelle zone di scambio di idee al di fuori delle nostre comunità scientifiche, nell'insegnamento a un pubblico non specializzato o nelle conferenze in cui incontriamo persone di discipline affini o scuole di pensiero associate. Nel processo di scambio e di conversazione al di fuori dei nostri colleghi che la pensano come noi, possiamo essere sufficientemente aperti alle forze destabilizzanti e ambivalenti della critica esterna” (Aron, 2018, 205)

4. Propensione al dono

 “Gli esseri umani hanno una struttura di motivazioni complessa e una maggiore capacità di risolvere dilemmi sociali di quanto sostenga la teoria della scelta razionale” (Pelligra, 2024). Così scriveva Elinor Ostrom qualche anno fa sull’American Economic Review in occasione del conferimento del Premio Nobel. Motivazioni complesse, dunque, non riconducibili, neanche in ambito economico, alla sola influenza dell’interesse individuale. È una considerazione fondamentale che dovrebbe portare, tra le altre cose, ad una rivisitazione profonda della teoria degli incentivi. Ma quali sono gli elementi che compongono questa “complessità motivazionale” di cui parla la Ostrom? Se ne sono occupati molto gli economisti che poi si sono fatti affiancare da sociologi e psicologi ed indagano le soluzioni inattese dove i soggetti, in situazioni di stress reagiscono non attaccando o fuggendo, ma prendendosi cura di un soggetto che invade violentemente il proprio spazio[5]. Una prima modalità è legata a quella che si può definire “capacità di gratuità”. Da un punto di vista comportamentale gli indizi della nostra propensione al dono sono numerosi e convincenti e vanno dal piccolo atto di gentilezza fino al gesto più eroico. Vi sono molti esempi di soggetti che rischiano la loro vita pur di salvare qualcuno in difficoltà. La tesi è che i soggetti siano naturalmente portati a prendersi cura degli altri, ben oltre all’immediato interesse individuale (Rabin, 1993).

In sintesi.

Ho suggerito che nei conflitti il problema non è chi abbia torto o ragione perché tutte le componenti in gioco hanno ragione allo stesso titolo. Il conflitto si sostiene sullo scontro di due registri incompatibili, l’uno simmetrico, l’altro empatico. Ho proposto un terzo registro, ovvero la tregua che permette la coesistenza fisica dei due registri incompatibili. La tregua, realizzata secondo le varie circostanze, è necessaria per accedere poi alla condivisione di un diverso registro comunicativo che renda simbolico ed empatico quello che nella tregua è semplicemente una coesistenza forzata. La coesistenza fisica, in uno stesso luogo, delle fazioni in conflitto, parte dalla necessaria fiducia di almeno una delle parti in conflitto. La base del processo della tregua, non è il contenuto, ma la copresenza fisica in uno stesso luogo delle parti in conflitto.

“Pensai che sarebbe stato pericoloso dire a Martha l'impressione che mi aveva procurato,

soprattutto perché non conoscevo le regole del gioco ostile che aveva iniziato”

(Zusman, 2021, 282)

 


[1] Vale la nota affermazione di Bion: “Nella psicoanalisi, quando ci si accosta all’inconscio – cioè a ciò che non sappiamo – è inevitabile, sia per il paziente che per l’analista, essere turbati. In ogni studio di analista dovrebbero esserci due persone piuttosto spaventate: il paziente e l’analista. Se non sono spaventati, c’è da domandarsi perché si prendono il disturbo di scoprire quello che tutti sanno” (Bion, 1974, 353). Inoltre Ogden: “per l’analista… l’angoscia del primo incontro…è interpretata come paura che il paziente si sottragga al trattamento; e invece il terapeuta ha paura che il paziente rimanga” (Ogden, 1989, 139). E ancora: “In quella prima seduta, mi accorsi di non provare empatia o compassione per Martha e non ero certo di volerla far tornare” (Zusman, 2021, 282).

[2] Per “Processo Dissociativo” considero il movimento che si attiva nella vita e che l’incontro analitico sollecita e cura di continue intersezioni fra stati dissociati del Sé di paziente ed analista. All’interno di questo Processo Dissociativo distinguo fra un dispositivo dissociativo che esita in configurazioni strutturate riferibili alla rimozione e configurazioni sospese, che tendono a compimento, riferibili al dispositivo della dissociazione propriamente detta ovvero dove sono sospese le capacità di integrare nel Sé esperienza e dove “non vi è stata validazione” (Stolorow, Atwood, 1994) o “sono carenti le capacità depressive del soggetto” (Bion, 1974, 87). Per una più articolata presentazione di questi concetti rinvio a Riefolo, 2025.

[3] Bromberg, (2006) in questo caso parla di sorpresa sicura, quando “la relazione analitica ripete inevitabilmente i fallimenti del passato del paziente facendo al contempo – si spera – qualcosa di più che ripeterli” (210)

[4] Faccio riferimento a un articolo su Starzl di Marguerite Holloway, 14 gennaio 2007 , sul sito ScientificAmerican.com. cit. in Aron, 2018.

[5] Nel 1993, nasce il Preferences Network un gruppo di ricerca formato da economisti, antropologi e psicologi interessati a sviluppare modelli di comportamento secondo cui le persone tengono conto degli effetti che le loro azioni esercitano su sé stesse, ma anche sugli altri.

 

 

София plus.google.com/102831918332158008841 EMSIEN-3

Login