Favolacce è il titolo della seconda opera dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, pellicola presentata alla 70° edizione del Festival di Berlino, dove si è aggiudicata l’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura. Nel cast è presente Elio Germano, uno degli attori più premiati del cinema italiano. La storia si apre con la voce narrante fuori campo di Max Tortora che ci introduce per mano all’interno del diario segreto, ritrovato postumo, di una bambina brillante, ma piuttosto introversa, che vive la sua non-esistenza insieme al fratello maggiore altrettanto brillante e introverso, in un quartiere di villette a schiera della periferia residenziale romana. Un quartiere di famiglie tutte apparentemente rispettabili che hanno raggiunto anche un certo grado di benessere sociale ed economico, ma che sono in realtà del tutto disfunzionali nel condurre la loro vuota esistenza. Incapaci di qualsiasi espressione di affettività e di sintonizzazione emotiva tra loro e con i propri figli preadolescenti.
Come in tutte le favole che si rispettino anche Favolacce ha nei bambini i sui veri protagonisti. Bambini tra i 12 e i 13 anni, in quella delicata fase della pubertà, che dall’infanzia passando per la latenza traghetta all’adolescenza. Bambini intelligenti, ma cupi, soli, senza speranza, profondamente lucidi nelle proprie precoci consapevolezze.
I fratelli D’Innocenzo, con coraggio, raccontano il dramma di una infanzia non vissuta dal punto di vista di chi conosce bene di cosa si stia parlando. Hanno scritto questa sceneggiatura a 19 anni tenuta nel cassetto per tempi migliori, e i tempi migliori sono arrivati. Il loro sguardo è crudo, impietoso, ma reale nel fotografare le miserie umane dei propri personaggi. Ci imbattiamo immediatamente in genitori che usano i figli per il proprio narcisismo. La prima scena è un’istantanea in cui tre famiglie cenano insieme in giardino, in una tranquilla sera d’estate. D’un tratto l’atmosfera diviene cupa e sinistra, carica di ostentazione, gelosia e invidia. Due bambini (fratello e sorella) silenziosi, composti ed educati si alzano da tavola, su ordine del padre, per esibire i voti in pagella recitati come una poesia imparata a memoria con dovizia, ma senza alcuna partecipazione emotiva. I voti sono tutti 10. Gli adulti li osservano. Aggressivi e violenti i padri, passive e inermi le madri. In questa piccola comunità covano silenti la crudeltà e la negligenza degli adulti incapaci di farsi carico del proprio fallimento genitoriale e la disperazione dei bambini diligenti, ma incapaci di farsi ascoltare. Ma come le favole ci insegnano qualcuno disposto ad ascoltare c’è, un pifferaio magico pronto ad indicarti la strada si trova sempre. In questa favola nera, moderna e contemporanea il pifferaio magico veste i panni del professore di scuola anche lui brillante e ritirato, solo, molto simile agli studenti che lo avvicinano per imparare, per nutrirsi di un insegnamento. Uno di loro. Una sorta di guru, un corruttore di innocenti che predica una morale alla rovescia secondo cui stimolare l’odio e e la vendetta appare l’unico obiettivo da poter realizzare. La dimensione perversa morale di abuso, maltrattamento e predazione trova il suo apice nell’insegnamento della costruzione di una bomba, poi scoperta, allo scopo di far saltare in aria tutto il quartiere. Bambini sconvolti da violenze, privazioni psichiche e affettive, che hanno profonde e già ben radicate (in)certezze riguardo alla loro identità e filiazione.“Sei sicura di voler un figlio?” domanda il dodicenne costruttore di bombe alla sua vicina di posto sul pulmino della scuola, una ragazza incinta, poco più grande di lui, mentre le confessa il suo progetto di deflagrazione. Bambini che sono il prodotto di una filiazione alterata, i quali non possono fantasmatizzare una realtà diversa per loro da quella che agiscono.
Favolacce ricorda nella continua tensione della narrazione i romanzi di Emanuelle Carrere in particolare La settimana bianca. Un’altra “favolaccia” su di un’infanzia tradita dove le notti del piccolo Nicolas sono abitate da incubi, da storie di assassini, di rapimenti e di orfanità. E sentiamo, che questa vaga, ma crescente tensione, incombe su di lui come un’oscura minaccia che i suoi incubi possano, da un momento all’altro, assumere una forma reale, travolgendo e condannandolo a vivere la vita all’interno di quei mostri infantili.
Favolacce ricorda la prosa asciutta e minimalista di Raymond Carver. I suoi racconti parlano di misteriose assenze, di storie di vita e di miseria umana dovuta alla negligenza più che alle cattive intenzioni. I mostri sono acquattati nella quotidianità. Come nei dialoghi di Carver nei dialoghi di Favolacce le frasi restano sospese, i finali accennati o coincidenti con l’incipit, le pause di silenzio svelano una profonda inquietudine che ci suggerisce che la bomba sta appena sul punto di esplodere o meglio di implodere. I bambini scelgono di implodere. I genitori ignari e soggiogati dal loro autocompiacimento si scambiano frasi vuote: “sei il padre migliore del mondo”.
Bambini costretti a somigliare ai padri. “Sei come me!!Sei come me!!,” urla il padre al figlio mentre lo porta su di un prato per insegnargli a guidare spericolatamente facendo i testa coda invece di accompagnarlo alla festa di compleanno per cui il figlio si è timidamente preparato. Bambini mai riusciti a sentirsi riconosciuti, privati dell’esperienza di avere un posto significativo nella mente del genitore. In una scena una bambina che ha preso i pidocchi viene fatta sedere su una sedia, dalla madre, e le vengono tagliati i capelli. Lo sguardo della bimba è fisso nel vuoto, inespressivo, il corpo è inerte bloccato sulla sedia. Il padre la guarda, dicendole "sei bellissima".
C’era una volta un sogno che oggi non c’è più … titola la locandina del film e noi sappiamo quanto il sognare come il narrare, narrare favole per esempio, sia fondamentale nella vita mentale del bambino. Freud nel suo scritto Materiale fiabesco nei sogni (1913), afferma che elementi derivanti da racconti possono essere frequentemente ritrovati nell’analisi dei sogni. Le favole rientrano nella complessa elaborazione del simbolismo onirico inconscio, contribuendo durante tutta l’infanzia allo sviluppo della mente e della propria realtà psichica interna. L’essere umano per evolvere sufficientemente bene ha bisogno di risposte sufficientemente responsive da parte di chi se ne prende cura. Per lo sviluppo del narcisismo al servizio della vita e della costruzione di un sé coeso e vitale il bambino ha bisogno di provocare nel genitore un’emozione che lo valorizzi, ha bisogno di incontrare un genitore capace di reciprocità che lo tratti da soggetto riconoscendogli una identità separata. Stati affettivi non ben integrati e non convalidati da una adeguata sintonizzazione affettiva nel corso dello sviluppo possono avere conseguenze altamente disadattive. I bambini di Favolacce, privi di tutto questo, sembrano annullare la pubertà, sembrano annullare l’accesso all’età adulta. Perpetuano un doppio attacco, il primo ai genitori che li hanno generati, il secondo al loro corpo adolescente sessuato, in nuce.
Incredibilmente si insinua nella narrazione un elemento romantico. In una scena due dei giovani protagonisti si danno appuntamento al lago per fare l’amore. Tentativo maldestro perché troppo spaventati dallo sperimentare un contatto intimo, umano, fatto di quella tenerezza che non hanno mai conosciuto. In un’altra scena ritroviamo la ragazza incinta del pulmino della scuola in un bar, con il suo fidanzato, che sta parlando di una canzone che improvvisamente diventa il sottofondo musicale del locale in cui sono e dove stanno cercando di divertirsi. Giusto il tempo di un servizio al telegiornale e la favola ritorna favolaccia.
Abbiamo già molto apprezzato i fratelli D’Innocenzo nella loro opera prima La terra dell’Abbastanza. Anche quella una storia di periferia, di adolescenza e amicizia, di crimine e di padri violenti. In questa seconda opera l’aderenza alla realtà si combina perfettamente con la narrazione immaginaria, cupa e fiabesca degna del lato noir dei fratelli Grimm.
Favolacce è un film intenso, che ti tocca, ma nello stesso tempo inafferrabile ti lascia con la sensazione di doverlo rivedere. È uno di quei film che ti interroga molto. Così parafrasando il titolo di uno dei più significativi tra i racconti di Raymond Carver, dopo questa visione, verrebbe da chiedersi Di cosa parliamo quando parliamo d’amore.