
Uno psicoanalista è uno strano spettatore di film: “cosa vede quando va al cinema?”. Il rischio è che al cinema continui a fare l’analista e cerchi l’inconscio rimosso nel regista e nel film. Questo, però è un vecchio luogo comune. Al tempo stesso “cosa vede uno spettatore o un regista nei film che parlano di psicoanalisi?”. Anche in questo caso c’è il rischio che spettatori e registi vedano la psicoanalisi come una sorta di film poliziesco o thriller dove, un atteso colpo di scena, chiarirà una storia altrimenti con- fusa e dolorosa. Freud stesso aveva perplessità che psicoanalisi e cinema avessero un registro comune e, per questo declinò l’invito di Pabst (1926) a essere consulente di quello che è stato il primo film psicoanalitico europeo. A Hollywood lo stesso problema lo risolvevano nel 1938 con Fred Astaire e Ginger Rogers. Forse il problema non è ancora risolto. Questo libro abbandona la logica indagatoria e suggerisce che ogni spettatore vedrà solo un proprio film diverso persino da quello che propone il regista. È un modello per la stanza di analisi dove un analista è chiamato a partecipare ad un film di cui il suo paziente compone la trama che scompone le certezze dell’analista e lui, per fortuna e per mestiere, a differenza dell’ispettore Callaghan, non “sa sempre come fare colpo”.